Poesia ininterrotta
e vincolo con la morte
Mario
Fresa
Nella parola
forte della poesia, si ascolta una voce che sempre è ferita dalla incessante
contemplazione di un oggetto irraggiungibile (o già svanito, innanzi tempo); una
voce che, mimando il torneo mortale della rincorsa di quell’oggetto
inaccessibile, s’inchioda alla visione e alla tortura di un’impossibile
nominazione di ciò che, disperata, rincorre.
Il poeta consegna il suo sguardo
al tempo chiuso delle parole che, mostrandosi, imprigionano la scena delle
immagini nel recinto invalicabile di ciò che è stato per sempre, e che non
potrà mai più cambiare.
La parola
poetica è sempre vicina all’emergere di una rottura, o alla tensione di un
altrove irraggiungibile. È una parola che s’immerge nell’inversione simmetrica
di una voce che tutto grida, senza quasi farsi udire (la poesia è letta;
se è ascoltata, essa è sempre diretta
alla mancanza assoluta del silenzio).
I versi dicono ciò che è stato (ma non ciò che si è perduto); e dicono ciò che
tocca la vertigine di una lingua che s’arresta sulla soglia del visibile e del
nominabile (ma non ciò che può essere formulato, o descritto, con il linguaggio
schematico e riduttivo della quotidianità). I versi nominano, allora, ciò che
si riconosce dell’ombra misurabile degli eventi, o dei suoi grumi segreti,
delle sue maschere ricomposte nei confini di una scena in cui tutto è già avvenuto (e in cui tutto sembra
indescrivibile, perché rovesciato nel segno oscuro di un’uscita definitiva dal tempo). Nello spazio trasparente delle
immagini, la parola poetica irrompe come sintomo di sconcerto e di malattia,
comparendo come voce nascosta di un’acuta separazione, o di una lontananza, o
di una privazione, o di un’assenza. La parola tiene e lega le coordinate
sensibili di questa rappresentazione dell’assenza
e del già stato; e la poesia
s’insinua nella scacchiera delle immagini presentandosi come disturbo, come rovesciamento e
trasmutazione patologica delle tracce della Storia. Ma come dire, come comunicare il senso di questo destino grave che
condanna il poeta alla continua registrazione di un’assenza? Come disegnare i
contorni di un’ombra che avvertiamo solo quando essa è distante, tagliata fuori, già trapassata? La lingua deve dominare
lo spazio del senso, fino a uscirne fuori, a cancellarlo, a dimenticarlo. La
lingua deve farsi altra, rovesciarsi
in un discorso impuro, in una trasversale deviazione. Ecco il segreto della
lingua-ombra (lingua della memoria e dell’incanto, del tempo tagliato e obliquo;
lingua dell’aritmia e dell’immaginazione) creata da Sebastiano Aglieco nel suo
più recente, bellissimo libro di poesie, Compitu
re vivi (Il Ponte del Sale, 2013). La scrittura di Aglieco interroga i
segnali del tempo, diventando essa stessa simulacro di immortalità e di
atemporalità. Il dialetto reinventato (ricostruito a partire dagli echi della
memoria dell’infanzia) si trasforma in rituale della ricerca e dell’errare, e
nella messa in posa di un’interrogazione trasfigurata e dolente; il verso
diventa figlio disperato di una richiesta, movendosi nelle regioni oscure del
debito, della soggezione, dell’afflizione, della colpa (ed è la colpa del
ricordo e dell’attesa, della speranza e della stessa richiesta, formulata come
un’alta preghiera).
Magica e
misterica è la lingua altra usata da
Sebastiano Aglieco. Negli eventi estremi che essa racconta, vedi mostrarsi una
dolcezza antica, fermata nella vertigine di uno sguardo retrocesso alla
dimensione di un tempo indiviso,
inesorabilmente infranto (e, per questo, inteso come eterno, interminabile).
Così, la parola s’identifica, allora, con il tempo sottratto al tempo della memoria, traducendosi in lingua rinnovata
(e in una risurrezione dello sguardo): e la poesia si sottrae allo spazio della
sua voce, diventa ininterrotta, battente, non più figlia della mancanza, non
più voce della separazione. Ma vedi pure, in questi versi, lo sfinimento ch’è
dato dalla gioia di chi, a un tratto, sa riconoscere il destino di ognuno, custodito nel dovere finale di accettare l’esistenza
come perdita e rimozione, come spazio di un precipitare e di un finire che non
ha senso né conclusione, e che già appartiene al tempo astorico del divino. La
vita è, così, acquisita in anticipo dal silenzio del non essere, dalla
catastrofe salvifica della morte.
Accogliendo la
luce di questo taglio culminante e decisivo che ribalta la vita nella rifiorita
superficie di una rinascita inaspettata (coincidente con la perdita di sé, con
lo sprofondare nell’aperto labirinto della morte), il poeta dice a se stesso:
«Guardo le foglie nel margine / la luce che alimenta e che abbandona. / Ecco:
toccàti, sfiorati sulle labbra. / Così è la parola che vi mostra al mondo nella
/ luce brevissima, nel suono che / non deve niente alle cose. / Questo il canto
delle foglie che ascolto / mentre muoio al tempo senza / rimpianto, senza
pianto».
Il soggetto non si appartiene più, e aspetta, nel silenzio del suo
distacco, di essere nominato, al di là del suo
tempo.
In alto, una
sequenza fotografica di Eadweard Muybridge.