domenica 30 marzo 2014

Mario Fresa. Ex Libris (3)



Poesia ininterrotta
e vincolo con la morte
Mario Fresa




Nella parola forte della poesia, si ascolta una voce che sempre è ferita dalla incessante contemplazione di un oggetto irraggiungibile (o già svanito, innanzi tempo); una voce che, mimando il torneo mortale della rincorsa di quell’oggetto inaccessibile, s’inchioda alla visione e alla tortura di un’impossibile nominazione di ciò che, disperata, rincorre. 
Il poeta consegna il suo sguardo al tempo chiuso delle parole che, mostrandosi, imprigionano la scena delle immagini nel recinto invalicabile di ciò che è stato per sempre, e che non potrà mai più cambiare.
La parola poetica è sempre vicina all’emergere di una rottura, o alla tensione di un altrove irraggiungibile. È una parola che s’immerge nell’inversione simmetrica di una voce che tutto grida, senza quasi farsi udire (la poesia è letta; se è ascoltata, essa è sempre diretta alla mancanza assoluta del silenzio). 
I versi dicono ciò che è stato (ma non ciò che si è perduto); e dicono ciò che tocca la vertigine di una lingua che s’arresta sulla soglia del visibile e del nominabile (ma non ciò che può essere formulato, o descritto, con il linguaggio schematico e riduttivo della quotidianità). I versi nominano, allora, ciò che si riconosce dell’ombra misurabile degli eventi, o dei suoi grumi segreti, delle sue maschere ricomposte nei confini di una scena in cui tutto è già avvenuto (e in cui tutto sembra indescrivibile, perché rovesciato nel segno oscuro di un’uscita definitiva dal tempo). Nello spazio trasparente delle immagini, la parola poetica irrompe come sintomo di sconcerto e di malattia, comparendo come voce nascosta di un’acuta separazione, o di una lontananza, o di una privazione, o di un’assenza. La parola tiene e lega le coordinate sensibili di questa rappresentazione dell’assenza e del già stato; e la poesia s’insinua nella scacchiera delle immagini presentandosi come disturbo, come rovesciamento e trasmutazione patologica delle tracce della Storia. Ma come dire, come comunicare il senso di questo destino grave che condanna il poeta alla continua registrazione di un’assenza? Come disegnare i contorni di un’ombra che avvertiamo solo quando essa è distante, tagliata fuori, già trapassata? La lingua deve dominare lo spazio del senso, fino a uscirne fuori, a cancellarlo, a dimenticarlo. La lingua deve farsi altra, rovesciarsi in un discorso impuro, in una trasversale deviazione. Ecco il segreto della lingua-ombra (lingua della memoria e dell’incanto, del tempo tagliato e obliquo; lingua dell’aritmia e dell’immaginazione) creata da Sebastiano Aglieco nel suo più recente, bellissimo libro di poesie, Compitu re vivi (Il Ponte del Sale, 2013). La scrittura di Aglieco interroga i segnali del tempo, diventando essa stessa simulacro di immortalità e di atemporalità. Il dialetto reinventato (ricostruito a partire dagli echi della memoria dell’infanzia) si trasforma in rituale della ricerca e dell’errare, e nella messa in posa di un’interrogazione trasfigurata e dolente; il verso diventa figlio disperato di una richiesta, movendosi nelle regioni oscure del debito, della soggezione, dell’afflizione, della colpa (ed è la colpa del ricordo e dell’attesa, della speranza e della stessa richiesta, formulata come un’alta preghiera).
Magica e misterica è la lingua altra usata da Sebastiano Aglieco. Negli eventi estremi che essa racconta, vedi mostrarsi una dolcezza antica, fermata nella vertigine di uno sguardo retrocesso alla dimensione di un tempo indiviso, inesorabilmente infranto (e, per questo, inteso come eterno, interminabile). Così, la parola s’identifica, allora, con il tempo sottratto al tempo della memoria, traducendosi in lingua rinnovata (e in una risurrezione dello sguardo): e la poesia si sottrae allo spazio della sua voce, diventa ininterrotta, battente, non più figlia della mancanza, non più voce della separazione. Ma vedi pure, in questi versi, lo sfinimento ch’è dato dalla gioia di chi, a un tratto, sa riconoscere il destino di ognuno, custodito nel dovere finale di accettare l’esistenza come perdita e rimozione, come spazio di un precipitare e di un finire che non ha senso né conclusione, e che già appartiene al tempo astorico del divino. La vita è, così, acquisita in anticipo dal silenzio del non essere, dalla catastrofe salvifica della morte.
Accogliendo la luce di questo taglio culminante e decisivo che ribalta la vita nella rifiorita superficie di una rinascita inaspettata (coincidente con la perdita di sé, con lo sprofondare nell’aperto labirinto della morte), il poeta dice a se stesso: «Guardo le foglie nel margine / la luce che alimenta e che abbandona. / Ecco: toccàti, sfiorati sulle labbra. / Così è la parola che vi mostra al mondo nella / luce brevissima, nel suono che / non deve niente alle cose. / Questo il canto delle foglie che ascolto / mentre muoio al tempo senza / rimpianto, senza pianto». 
Il soggetto non si appartiene più, e aspetta, nel silenzio del suo distacco, di essere nominato, al di là del suo tempo.










In alto,  una sequenza fotografica di Eadweard Muybridge.