Edizioni Lepisma, 2011
recensione di Vincenzo D'Alessio
La raccolta poetica che va sotto il titolo di Poesie Torinesi, edizioni Lepisma 2011, di Dante Maffia composta da cinquantuno componimenti, l’ho accolto come un invito a seguire l’autore con gioia. Ma la fatica della “camminata” per le strade della città/non città di Torino mi è costata tanto. Tornava alla mente il “cammin di nostra vita” dove il visitatore era in compagnia del grande maestro.
All’inizio mi sono sentito a casa: poesia piena di sapori, odori, atmosfera, tutta meridionale. Per dirla con Franco Cassano, una dolce lentezza meridiana, dove il Mediterraneo raggiungeva la cucina/fucina: luogo deputato per eccellenza a rendere forte il pensiero/verso liberandolo da ogni pesante retorica. Proprio come mi proponeva l’autore in questa raccolta: “(…) uno spaghetto al pomodoro. Spello uno per uno / dei sammarzani così belli / (…) Per frutta pesche dell’ortolano. / (…) le metto / nel primitivo di Manduria” ( In cucina). Praticamente per me, che venivo per la prima volta a Torino, vedere i pomodori campani, il vino pugliese, mi ha dato l’idea che il mare fosse lì attaccato alla mensola della finestra. Invece no! Abbiamo iniziato il giro per le strade, le piazze e i corsi: “Ho corso per i corsi di Torino, / – non esiste un’altra città con tanti corsi / uno dentro l’altro, larghi disperati –” ( Notturno).
Sinceramente, caro Dante, non riesco proprio a ricordare tutti i nomi dei luoghi che mi hai invitato a visitare: via Po, Porta Nuova, corso Unione Sovietica, corso Galileo Ferraris, via Lagrange, via Spano, via Roma, via Tunisi, via Novara, le Molinette, il vecchio stadio, i Murazzi, il ghetto ebraico, via Cibrario, la collina di Superga, Porta Palazzo, via Paoli, e tutti gli altri caffè della città. Torino non è poi così bella come la descrivevano i nostri emigrati degli anni Sessanta: il mio vicino conserva ancora la sua Fiat seicento comprata quando lavorava nella fabbrica di Mirafiori. Poi è tornato a Sud.
Le lezioni di Gianni Vattimo non mi hanno impensierito. Mentre camminavamo mi hai ribadito: “Il filosofo forse ha ragione, ma io / la penso diversamente: le verità / stanno in superficie” (Prima lezione di filosofia). Trovi la mia condivisone su quanto dici! – Come il richiamo a La scienza Nuova del conterraneo Giambattista Vico: “(…) Ma quella donna coi seni puntuti / mi distrae dalla lotta e Pan ride / della mia debolezza, mi sottrae / il senso e il divenire” (Vattimo: terza lezione). I miti greci sono rinati nelle nostre terre, per questo ti seguo alla ricerca della parabola meridiana tra ombre e nebbie di una città troppo grande per lasciare fiorire i sogni e permettere al sangue caldo di non gelare.
Certo non siamo passati vicini al cimitero monumentale di Corso Novara: avremo sentito ancora il tuo dialetto e il mio, la voce dei morti imprecare scongiuri dopo tanti anni. I nostri conterranei non si sono adattati a morire qui, lontani dal mare così caldo: “Già ti cresce in cuore / la lontananza / e cieli nuovi saranno / a vederti sfiorire” (Mia sorella va sposa a Torino). Abbiamo visitato il Museo Egizio, la bella raccolta “Luigi Pigorini” e ti ho visto per un attimo smarrito prendere il tuo taccuino e assentarti dallo sciame dei visitatori: “(…) Per me eri una creatura come un’altra, / avrei potuto ucciderti, ma sai, in me / non si cancella il sogno della vita / neppure quando ho a che fare con la mostruosa / tua scempiaggine. Ti assolvo, ma bada, / non voglio finire come tutti. / O tu che poi sarai mia sposa eterna” (Alla morte).
Per una data abbiamo un amico comune, 27 agosto 1950, Cesare Pavese. In quei giorni mi nutrivo al petto di mia madre ma sapevo che avrei incontrato i versi del poeta delle Langhe lungo la mia strada: amava le colline, l’uva matura, i suoni sull’aia. Peccato che non l’abbia conosciuto, così schivo, tanto impegnato. Tu lo descrivi giustamente: “(…) per chi ebbe la vocazione al vizio assurdo / e se ne fregò del successo” (27 agosto 1950). Anche i tuoi amici Primo Levi, Giorgio Barberi Squarotti, Norbeto Bobbio, in qualche pensiero sono debitori all’illustre scomparso.
Quello che più amo di questa tua raccolta è l’ironia possente, la voce dei presagi che si annunciano con l’aiuto dell’enjambement, la rima che compare nelle chiuse o all’interno del corpo poetico: sembri la Sibilla Cumana. Mi piace ascoltarti mentre parli in modo pulito di puttane, di urinare, di sputare sul pavimento, del bidet, del sangue, senza alterare la bellezza euritmica del costrutto poetico: “La Mole” versatile per rendere omaggio alla città nella quale mi stai guidando: “(…) Torino della mia infanzia / era la culla dell’ordine e della ricchezza / e presentarsi a me con quella schifezza / di bidoni consunti, di giornali vecchi, / su cui c’erano vistose cacche di topi / mi fece male” (Mi meravigliai).
Come ha scritto Giovanni Tesio nella prefazione a questa raccolta: «Mentre scrivo questa prefazione il giorno dopo il referendum-Marchionne – non può non colpirmi, infine, una quartina ancora de L’amante, che contribuisce a suggerire anche una lettura di taglio “civile” (termine che invito ad accogliere con discrezione): “(…) pensa che ancora tu puoi / ordinare i cassetti, rifarti il belletto, / ridare ai monumenti la cipria / e dare una sterzata a Mirafiori”. Il caso che diventa destino? O davvero la poesia è anche – e sempre – un po’ profezia?» Credo sinceramente di avere i piedi stanchi dopo questa lunga camminata per tante strade e tanti luoghi. Ma non conosco la città se non attraverso i tuoi occhi, il tuo amore per la vita.
“(…) Fortuna che all’angolo con via Cernia / incontrai una donna quasi svestita. Per tutta / la notte mi spiegò la bellezza della città, / mi disse e ridisse dove s’annida / il fuoco sacro che dà linfa ai torinesi” (Notturno). In questi versi ritrovo la sacralità delle energie che la nostra gente/terra ha dato alla città e la consapevole distanza che ci separa. Il mare è il mare e il fiume vi si corica senza più età. Ti sono riconoscente per avermi guidato là dove non ero mai stato.
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