L’altro (o dell’irriducibilità dello sguardo)
Mario Fresa
Ma la parola, la
parola, può davvero fermarsi mai? E in particolare: la parola forte della poesia può conoscere l’ostacolo di una sospensione,
l’accecamento del sonno o dell’inerzia? Certo, no. Eppure: vi è un continuo paradosso
nell’opera di un poeta. Egli scrive: e dunque fissa, nell’immobile spazio delle
righe, qualcosa che tutto può essere, fuorché assoluto, durevole, risolutivo. La
morte, dico, non appartiene alla poesia. Infatti: è necessario trasportare la
danza ferma della scrittura verso l’apertura di un movimento puro che si
identifichi, alla fine, con la vita stessa. Quale significato, in questa
ipotesi? L’esistenza risplende e si cancella, risplende e si supera, fruttifica
e tramonta: e ancora; e così via. Bisogna essere un fiume, anche quando si scrive.
Cioè: non si può mai sperare di dire l’esistenza, di nominarla, di chiuderne il
senso nel chiuso cerchio di una parola definitiva, che non sia pronta, di
continuo, alla trasmutazione e al rovesciamento. Perciò un verso va scritto, e
poi dimenticato, e dunque riconsegnato all’esperienza della vita stessa; e
allora, si dovrà pure capire che l’elemento fondante – in assoluto, il primo –
di ogni discorso poetico sta nella sua capacità di aderire con perfezione, e
con devozione, allo specchio metamorfico degli eventi che entrano-escono, e che
vivono-muoiono. La poesia coincide con l’emergere di un’esplosione che poi si
azzera e che poi già ricomincia, mostrando un nuovo volto, e un altro; e un
altro. Ed ecco, insomma: la poesia dice, appunto, l’altro, e ciò che è, e ciò che un istante dopo non è più; e testimonia,
soprattutto, l’irriducibilità, o l’imprigionabilità del pensiero, e le sue incontenibili
rifrazioni e mutazioni. Lo spiega bene l’ultimo, bellissimo libro di Eugenio
Lucrezi, Mimetiche (2013, oèdipus). Lucrezi
è, innanzi tutto, un poeta-vocalista, capace di declinare la parola della
poesia nei modi più fluidamente dinamici e scomponibili che si possano immaginare.
Tutto, in questa raccolta, riluce sul profilo di una lingua che ogni particolare
sa trasfigurare e sovvertire, nel segno di una metamorfosi nervosa e
ininterrotta che sempre rinnova e sempre si rinnova, e capovolge e ripensa il
reale, affermandolo e negandolo, ricostruendolo e rimovendolo. E questo, appunto,
significa saper tradurre la poesia nel gioco vero della vita (e, anche, nella
vita di un vero gioco): e nessun verso, qui, proprio nessuno, sembra voler trovare
la pace di un approdo, e si traveste e rinasce come un dio greco desideroso di
mascherarsi per amare (e di amare per mascherarsi; ed ecco, adesso, un altro paradosso:
chi si maschera, infatti, ama in modo assai più profondo, e più sincero!). E allora
le poesie di Lucrezi assumono figurazioni, timbri e parvenze che vivono all’insegna
dell’imprendibilità (e, in fondo, vorresti dire, dell’impossibilità di trovare,
o di scovare, un unico modo di ritrarre, e di catturare, l’istante concreto
della vita nel suo immediato mostrarsi); così, sulle pagine, vedi muoversi parole
che incontrano rime, assonanze, allitterazioni; e che si denudano fino alla scabra
geometria di un distico; e che si divertono a tratteggiare calligrammi che sono
quasi palindromi; e che spiegano la poesia in prosa, o utilizzano lingue altre,
antiche e nuove (l’inglese, il latino); e che fanno di tutto per diventare disegno
puro, colore accecante, e musica bianca e forte, percussiva e sottile, minimale
e grandiosa (leggere per credere: anzi no: ascoltare e vedere per credere!). C’è
proprio tutto, qui; e i versi dicono i sentimenti estremi: dolore ed eros che
dialogano proficuamente, rivelando un’amicizia forte e strana, e formando un’inquieta
adunazione di sensi che riunisce e fa camminare insieme i più lievi marezzi
della seta e i più temperati aculei di un’ironia sovrana: un’ironia, quella di
Lucrezi, che insegna la leggerezza e la malinconia, e che parla, con amore e
con mistero, dall’alto – o dalle viscere? - di un «golgota rumorista», col supporto
miracoloso di una lingua estrema, perché lucida e folle, «extramoenia e disabilitata»,
«extrasinusale», e tuttavia «felice».
Eugenio Lucrezi,
Mimetiche
Postfazione di
Massimiliano Manganelli
Con tre figurine
dell’autore
e due disegni di
Paola Nasti
Oèdipus, 2013,
pp. 120