mercoledì 19 febbraio 2014

Mario Fresa. Ritratti di poesia (32)



L’altro (o dell’irriducibilità dello sguardo)

Mario Fresa






Ma la parola, la parola, può davvero fermarsi mai? E in particolare: la parola forte della poesia può conoscere l’ostacolo di una sospensione, l’accecamento del sonno o dell’inerzia? Certo, no. Eppure: vi è un continuo paradosso nell’opera di un poeta. Egli scrive: e dunque fissa, nell’immobile spazio delle righe, qualcosa che tutto può essere, fuorché assoluto, durevole, risolutivo. La morte, dico, non appartiene alla poesia. Infatti: è necessario trasportare la danza ferma della scrittura verso l’apertura di un movimento puro che si identifichi, alla fine, con la vita stessa. Quale significato, in questa ipotesi? L’esistenza risplende e si cancella, risplende e si supera, fruttifica e tramonta: e ancora; e così via. Bisogna essere un fiume, anche quando si scrive. Cioè: non si può mai sperare di dire l’esistenza, di nominarla, di chiuderne il senso nel chiuso cerchio di una parola definitiva, che non sia pronta, di continuo, alla trasmutazione e al rovesciamento. Perciò un verso va scritto, e poi dimenticato, e dunque riconsegnato all’esperienza della vita stessa; e allora, si dovrà pure capire che l’elemento fondante – in assoluto, il primo – di ogni discorso poetico sta nella sua capacità di aderire con perfezione, e con devozione, allo specchio metamorfico degli eventi che entrano-escono, e che vivono-muoiono. La poesia coincide con l’emergere di un’esplosione che poi si azzera e che poi già ricomincia, mostrando un nuovo volto, e un altro; e un altro. Ed ecco, insomma: la poesia dice, appunto, l’altro, e ciò che è, e ciò che un istante dopo non è più; e testimonia, soprattutto, l’irriducibilità, o l’imprigionabilità del pensiero, e le sue incontenibili rifrazioni e mutazioni. Lo spiega bene l’ultimo, bellissimo libro di Eugenio Lucrezi, Mimetiche (2013, oèdipus). Lucrezi è, innanzi tutto, un poeta-vocalista, capace di declinare la parola della poesia nei modi più fluidamente dinamici e scomponibili che si possano immaginare. Tutto, in questa raccolta, riluce sul profilo di una lingua che ogni particolare sa trasfigurare e sovvertire, nel segno di una metamorfosi nervosa e ininterrotta che sempre rinnova e sempre si rinnova, e capovolge e ripensa il reale, affermandolo e negandolo, ricostruendolo e rimovendolo. E questo, appunto, significa saper tradurre la poesia nel gioco vero della vita (e, anche, nella vita di un vero gioco): e nessun verso, qui, proprio nessuno, sembra voler trovare la pace di un approdo, e si traveste e rinasce come un dio greco desideroso di mascherarsi per amare (e di amare per mascherarsi; ed ecco, adesso, un altro paradosso: chi si maschera, infatti, ama in modo assai più profondo, e più sincero!). E allora le poesie di Lucrezi assumono figurazioni, timbri e parvenze che vivono all’insegna dell’imprendibilità (e, in fondo, vorresti dire, dell’impossibilità di trovare, o di scovare, un unico modo di ritrarre, e di catturare, l’istante concreto della vita nel suo immediato mostrarsi); così, sulle pagine, vedi muoversi parole che incontrano rime, assonanze, allitterazioni; e che si denudano fino alla scabra geometria di un distico; e che si divertono a tratteggiare calligrammi che sono quasi palindromi; e che spiegano la poesia in prosa, o utilizzano lingue altre, antiche e nuove (l’inglese, il latino); e che fanno di tutto per diventare disegno puro, colore accecante, e musica bianca e forte, percussiva e sottile, minimale e grandiosa (leggere per credere: anzi no: ascoltare e vedere per credere!). C’è proprio tutto, qui; e i versi dicono i sentimenti estremi: dolore ed eros che dialogano proficuamente, rivelando un’amicizia forte e strana, e formando un’inquieta adunazione di sensi che riunisce e fa camminare insieme i più lievi marezzi della seta e i più temperati aculei di un’ironia sovrana: un’ironia, quella di Lucrezi, che insegna la leggerezza e la malinconia, e che parla, con amore e con mistero, dall’alto – o dalle viscere? - di un «golgota rumorista», col supporto miracoloso di una lingua estrema, perché lucida e folle, «extramoenia e disabilitata», «extrasinusale», e tuttavia «felice».







Eugenio Lucrezi, Mimetiche

Postfazione di Massimiliano Manganelli

Con tre figurine dell’autore
e due disegni di Paola Nasti


Oèdipus, 2013, pp. 120