domenica 20 gennaio 2013

Su Una città chiamata le sei di mattina di Valerio Grutt

 Edizioni della Meridiana, Firenze, collana «tutt'altro»

 nota di lettura di AR

«Farei l'alba e le linee del cielo / con i segni lasciati dal cuscino / sul tuo volto appena sveglia, meraviglia / che ti togli dal sonno e vieni come gli uccelli / di giorno, la tua risata  è chiamare il bene / per nome…»: sono i versi iniziali dell'utlima poesia di questa straordinaria raccolta di Valerio Grutt. Straordinaria perché nella sua pirotecnica essenzialità va proprio in cerca del lato dimesso, quotidiano, magari negletto, comunque in ombra, se non nascosto. della realtà e lo fa esplodere. Semplicemente. Umilmente. Onestamente. Come rileva nella partecipe Introduzione Davide Rondoni: «se un uomo vuole abitare “in una città chiamata le sei di mattina” significa che intende dimorare  nell'orizzonte della possibilità, del nascente, dello svelarsi» (p. 8). La vita è prodiga di batoste, ma anche di opportunità. Grandi ferite si accumulano e più o meno si cicatrizzano, e cresce al contempo il nostro stupore per un esser-ci, un esistere, un relazionarci fra luce e buio che è una condizione “capace” di grandi cose. Dall'abisso in cui ciascuno può venirsi a trovare, forse noteremo  quel gancio che è l'eterna, latente energia di un amore che brucia e trasforma. Così anche l'elaborazione del lutto per il padre perso da bambino: «nella sala d'attesa / tolsero l'acqua al pesce resso // il dottor temporale disse di chiudere le porte rimaste socchiuse // ci caricarono il buio alla nuca e spararono / (…) / hanno tolto l'uomo / hanno sradicato le sue mani dalle mie // (…) // quando tornerà non sarà buio il corridoio / si siederà a tavola e dirà: “perché avete aspettatto tanto… // potevate cominciare”.» (p. 18); «da bambino pensava che il bianco era il mio colore / poi ho cominciato ad amare // senza fare rumore è la strada ad andare / più di noi che ce la vediamo passare sotto» (p. 27). Un tratto caratteristico della poetica di Grutt mi sembra l'ironia sottesa che non è mai accusatoria, ma piuttosto amorevole ed empatica, unita a una verve spiazzante e immaginifica che sa costruire “messaggi” deflagranti con ingredienti apprentemente umili eppure sapientemente (soffertamente) scelti. C'è insomma la stoffa e lo stile di un vero poeta (come del resto afferma subito Rondoni) in queste pagine che smuovono e ci immergono nella tragicommedia della vita: «sono in bilico sul balcone storto / e vieni tu con l'anima a tracolla // non sai bene cosa dire / vieni da dove gli uccelli giocano alla lotteria // con le ali prese in prestito / vieni e dici: non c'è tempo // ho già buttato la pasta / amore mio» (p 29).

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