mercoledì 16 gennaio 2013

Su La festa di un giorno normale di Stefano Maldini

Raffaelli Editore, dicembre 2012, pp. 60,  12,00

nota di lettura di AR



La raccolta è suddivisa in tre sezioni: “Viole del pensiero” (fino a p. 25), “Nuvole” (fino a p. 41) e “Fiori di mandorlo”. Le poesie occupano solo le pagine dispari avendo quindi sempre a sinistra lo spazio bianco del silenzio, di ciò che è inesprimibile ma che è necessario spazio perché noi (e le nostre parole) possiamo prender corpo, così come troviamo nell'esergo di Nino Pedretti scelto per introdurre l'ultima sezione “Senza dir nulla a nessuno / e senza un preventivo di spesa / il mandorlo stanotte ha messo i fiori”.
Questa umile “festa quotidiana” di Maldini ci pone davanti all'amore, alla libertà, alla verità. Nella notevole e utilissima Prefazione, Francesco Gabellini scrive: “Credo che Stefano Maldini sia uno di quei poeti, e pertanto di quegli uomini, cui appartiene la grazia”. Sottoscriviamo e aggiungiamo che la grazia implica il vaglio della verità.
La vera verità è intangibile, afferisce al mistero, è la luce instancabile che corrode i confini della libertà e discioglie (ma non distrugge) al contempo il nucleo del male che ci pone davanti alle scelte, quotidiane o cruciali che siano. L'esergo celaniano scelto da Maldini – “Chi dice la verità, dice le ombre” – ci ricorda che le parole possono evocare, emozionare, creare metafore, analogie, condividere pensieri, ma sempre come atto di fede, un atto che implica un salto appunto nell'ombra, perché la luce assoluta le (ci) vaporizzerebbe, se non ci si abbandona al mistero della grazia (ovvero all'amore gratuito e incondizionato) del Padre.
Questo poeta-viaggiatore si confessa agostinianamente usando correlativi oggettivi palpitanti con una ironia evangelica (amorevole): «in questo giardino di rabbia / ho ripensato alla vita / a come ci consuma le parole / un silenzio e li ho sentiti / chiamarmi piano dai rami / come farò adesso / a pronunciare uno per uno / i loro nomi arancioni / a ringraziarli / a non lasciarli inghiottire / dalla voce del tempo / i fiori nuovi dei melograni?» (p. 21); «partendo ti riempio / silenzio bianco / e prigioniero mi riconosco / tra il tuo deserto / e il mio inchiostro di senso» (p. 23)… sì perché il senso è in fondo in-chiostrato, cioè chiuso nel chiostro di una grammatica, di una sintassi, di un lessico, di una ideologia, di un credo che cercano di esprimerlo e di condividerlo. Le lettere, che oggi più dell'inchiostro usano i pixel, sono molecole per dare forma a una poetica che parte da terra (anche dalle sconfitte) per tendere “festosamente” oltre (cf. p. 25).
Con l'amata al fianco dormiente in un velivolo sopra l'Altaj, il Nostro si chiede: «passeggio intanto e sono / un'acqua ancora, un raggio / bianco, una betulla – forse / non sono davvero più nulla» (p. 33). E più avanti: «Francesca le mie mani / rondini da te ritornano / giorno dopo giorno» (p. 51); «sgusciamo insieme / tu dalla malinconia / io dalle interpretazioni / se ti recito ti accolgo / la distanza non si sfuoca / e il corpo che mi parla / è un'altra lingua» (p. 57). Questi ultimi sono i versi che chiudono il “giorno”. Ci sembrano un bellissimo, emozionante, compendio della poetica di Stefano Maldini.

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