venerdì 24 agosto 2012

Quattro poesie di Ilaria Beneduce

presentate da Davide Valecchi


Ilaria Beneduce (1978), vive a Napoli. Da anni porta avanti una personale ricerca stilistica, sostenuta da un viscerale amore per la poesia contemporanea e del novecento, dove rigore formale, eleganza e continui spostamenti semantici fanno da cemento a tematiche legate allo scorrere del tempo, alla dimensione del ricordo e alla rappresentazione di dettagli di vissuto che si compenetrano con elementi naturali dando vita a vere e proprie trasfigurazioni. Presente nell’antologia Arbor Poetica (2011, LietoColle) e curatrice del blog musaerato.tumblr.com, ha pubblicato le sue poesie principalmente in rete. La maturità e la sicurezza della sua voce poetica meriterebbero una pubblicazione in volume che spero non tardi ad arrivare.



pudore di prima luce

attraverso l’istante rappreso
dalla fatica del suolo all’alba
bisbigliare forme sbrinarsi
in sagome incerte che intuisco
nel nero vociare

in questo delirio di atti incolti
esigo il ramo esigo l’ombra
ansia puerile del disatteso germogliare


la pazienza del grano

           siedo capriole di ieri
            ad accogliere aria
         acqua come terra arida

il ricordo: l’unica semina che conosco

          camminare all’indietro
          i confini ad uno ad uno
   e sperare nella pazienza del grano


il tuo andare

  sfato il turchino di stantìe memorie
   a coniugare l’imperfetto respirare
        aria di ginestre e di gennaio
sbrino i tuoi occhi a farne acqua salata
     finché non mi licenzi il fiato reso
      coperta al gonfio, sazio costato
       abdico al tuo sguardo sotteso:
                         Io
                 quando vado
                 divento a me
                 il tuo andare


saliva e terreno

  dove il vento pettina il giorno tra le maglie
 di rami e apre finestre nel fitto fogliame di te
  l’aria si ammucchia tra le crepe della bocca
  ne impenna i lembi un tempo sorrisi pastosi
 di luce ora rappresi in autunni senza rigoglio,
gocciola in una nenia infinita di saliva e terreno
   - laconica malinconia non usa alle parole -
  in questa notte che attende l’alba franare io
                              ho 
    nel dolore la salvezza e calpesto l’erba
           per sentirla odorare di muffa

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