Mario Fresa
Attraverso lo specchio.
A proposito de La partenza di Franco Fortini
F. Fortini |
La partenza
Ti riconosco, antico morso, ritornerai
tante volte e poi l’ultima.
tante volte e poi l’ultima.
Ho raccolto il mio fascio di fogli,
preparata la cartella con gli appunti,
ricordato chi non sono, chi sono,
lo schema del lavoro che non farò.
Ho salutato mia moglie che ora respira
nel sonno sempre la vita passata,
il dolore che appena le ho assopito
con imperfetta, di sé pietosa, atterrita tenerezza.
Ho scritto alcune lettere ad amici
che non mi perdonano e che non perdono.
E ora sul punto di dormire
un dolore terribile mi morde
come mille anni fa quando ero bambino
e lo chiamavo Iddio, e Iddio è questo
ago del mondo in me.
preparata la cartella con gli appunti,
ricordato chi non sono, chi sono,
lo schema del lavoro che non farò.
Ho salutato mia moglie che ora respira
nel sonno sempre la vita passata,
il dolore che appena le ho assopito
con imperfetta, di sé pietosa, atterrita tenerezza.
Ho scritto alcune lettere ad amici
che non mi perdonano e che non perdono.
E ora sul punto di dormire
un dolore terribile mi morde
come mille anni fa quando ero bambino
e lo chiamavo Iddio, e Iddio è questo
ago del mondo in me.
Fra poco, quando dai cortili l’aria
fuma ancora di notte e sulla città
la brezza capovolge i platani, scenderò per la via
verso la stazione dove escono gli operai.
Contro il loro fiume triste, di petti vivo,
attraverso la mobile speranza
che si ignora e resiste,
andrò verso il mio treno.
fuma ancora di notte e sulla città
la brezza capovolge i platani, scenderò per la via
verso la stazione dove escono gli operai.
Contro il loro fiume triste, di petti vivo,
attraverso la mobile speranza
che si ignora e resiste,
andrò verso il mio treno.
1.
L’inizio fa
pensare, davvero, allo schiudersi improvviso di una ferita che si profila
terribile, perché sempre temuta e sempre attesa.
Solo due versi,
inchiodati al dolore di un strappo, visivamente espresso dalla sua posizione tutta
staccata e «altra» rispetto al corpo seguente della poesia:
Ti riconosco,
antico morso, ritornerai
tante volte e
poi l’ultima.
La strofa, dunque,
colpita dalla dura luce di uno stupìto isolamento, sùbito spegne, con drastica
e desolata fermezza, ogni speranza di eventuale soluzione, ogni ipotesi di finale
riparazione.
Le parole
agiscono come rilevazione di un avvenimento che è avvertito come affatto irredimibile;
è un evento, certo, che non si è ancora verificato, ma che è già presente, già inciso nella carne viva
dell’essere.
L’antico morso,
cioè il destino mortale, è, insieme, sconosciuto
(perché ancora - ma per poco - assente)
e familiare: è «antico», poiché la sua
estrema e violenta puntura è inconsciamente impressa nell’uomo, sempre inseguito
e tormentato da quell’ossessivo, rigermogliante pensiero; ed è un tempo di
natura «mitica» più che storica, giacché l’«antichità» non ne indica una
posizione di remota distanza o di «inattualità».
In quell’antico, però, si avverte l’eco di
qualcosa di impreciso, di vago, di rimosso: eppure
non possiamo non sentire la vibrazione di un suo ineluttabile catapultarsi
nell’ora e nel qui.
Perciò
il poeta avvista, come nel mezzo di un acuto baluginare, il proprio vicino,
incontrastabile tramontare, registrando l’eco di una sua tragica familiarità. Leggiamo, infatti, che
l’antico morso è «riconosciuto»: ed è come se l’aspro combattimento con lo spettro
della morte e della fine fosse stato già vissuto e sofferto; perché se quella
battaglia è stata già affrontata da un solo uomo, è come se tutti gli uomini l’avessero vissuta.
La
poesia agisce, allora, come istante assoluto che fa coincidere il presente e
l’eterno, riorganizzando il tempo dell’uomo nella direzione di un ciclo tutto
fondato su di un regolare, fatale ritorno dell’Uguale. Qui, come registra Lavagetto,
«l’opera d’arte si configura come una sorta di ripetizione; il rimosso viene
risvegliato dall’esperienza estetica perché in essa prende corpo e rivive qualcosa
di nascosto e occultato nel passato sia individuale che filogenetico».
La
morte, allora, è già qui.
Antica
e vicina, altra e immanente. Il suo procedere ha un che di geometrico e di
infallibile: il suo eterno ritornare, «tante volte», (sotto l’aspetto della
morte altrui; oppure con il segnale di un primo, di un secondo, di un terzo avviso),
«e poi l’ultima», spinge il poeta a una constatazione che vive di una lucida e
quasi rassegnata compostezza: nessun lamento accompagna tale rilevazione,
perché il riconoscere la presenza dell’esperienza universale della morte tende
a configurarsi come l’oggettivo accoglimento di un destino che supera e cancella
qualsiasi tentazione di individuale commozione, qualsiasi ipotesi di confessione
personale.
Si
notino, ora, le non certo casuali paronomasie che, posizionate all’interno dei
primi due versi, suggeriscono, evidenziandole, le immagini della ripetizione,
dell’immanenza e del ritorno circolare della morte: Ti riconosco, antico; tante volte; e si osservi,
poi, lo stesso accostamento fonologico tra «morso» e «morte».
Le
interne, segrete concordanze dei fonemi ci fanno comprendere che è già nello
stesso suono degli eventi narrati che
si rivela potentemente inciso il destino di una eterna ripetizione della realtà.
Impossibile,
dunque, è sfuggire all’immensa, terrifica màcina del tempo che distrugge e
ricrea, in modo sempre uguale, il mondo; tutto
è già stato, e ogni evento riemergerà
con le medesime modalità, con gli stessi colori, e con le stesse incalcolabili
sorprese.
I
primi due versi sembrerebbero, si diceva prima, già concludere l’intero
discorso prima che sia sviluppato.
La
morte è in noi: non ci resta che riconoscerla e affrontarla, sùbito, adesso,
senza ricorrere a inutili preterizioni.
La
strofa ha, dunque, il sapore di una sentenza inoppugnabile: e termina, poi, con
un accento scarno, incontestabile, segnato
da una rude, inflessibile rigidezza, espressa dalla brusca parola sdrucciola
finale: ultima.
2.
Pure,
potremmo intendere tale inizio come una falsa
apertura, come una finta
partenza.
Il
poeta riprende i versi successivi come se riaprissero una riflessione nuova:
Ho
raccolto il mio fascio di fogli,
preparata
la cartella degli appunti,
ricordato
chi non sono, chi sono,
lo
schema del lavoro che non farò.
Si
apprestano, dunque, i preparativi.
Si
raccoglie il fascio di fogli (ancora una paronomasia di tipo quasi
onomatopeico: il gruppo di suoni fascio
di fogli ci ricorda, infatti, la
stessa malinconica, vana caducità del rumore
degli oggetti della vita: un rumore oscuro e sordo, labile e provvisorio come
il fruscìo di una foglia abbandonata al vento).
Si
riflette sul bilancio delle azioni compiute e incompiute, sulla galleria dei
desideri realizzati o soltanto progettati: e adesso il tono sembra forse alleggerirsi,
sfumarsi, cristallizzarsi in una specie di incantato stupore che stordisce e
intorpidisce il «viaggiatore» in attesa.
Si
inserisce, poi, un sotterraneo tono di paradossale e straniante ironia che ora
descrive fenomeni insoliti e nuovi, di surreale e stupefatta incongruenza (è il
caso del «ricordare» ciò che non si è); fenomeni che, beffardi, convivono con citazioni,
più o meno volontarie, di matrice gozzaniana («lo schema del lavoro che non
farò» sembra, infatti, un omaggio dedicato all’indolente e mestissimo verso: «e
vedo un quatrifoglio / che non raccoglierò»).
Le
azioni si riferiscono all’ossessione di un’iterazione, di una ripresa, di un
ritorno continuo, impossibile da completare, da concludere, da soddisfare.
Il
poeta è condannato alla ripetizione convulsa e cieca di una serie di progetti
che mai prenderanno forma, o che scompariranno presto, riposizionandolo sul
punto di partenza. Il suo andare avanti corrisponde a un falso movimento, a una
corsa immobile.
Si
riuniscono le carte con l’intenzione di studiarle: eppure il foglio è vuoto, la
pagina bianca, il pensiero svanito.
Si
prepara la cartella con gli appunti: ma l’inchiostro sembra quasi evaporato, facendo
sciogliere e dileguare ogni traccia di parola e di pensiero.
Più
avanti, ecco un’immagine di misteriosa e malinconica pre-morte:
Ho
salutato mia moglie che ora respira
nel
sonno sempre la vita passata,
il
dolore che appena le ho assopito
con
imperfetta, di sé pietosa, atterrita tenerezza.
È una
visione gonfia di mestizia e di inquietudine: la moglie, pur immersa nel
ristoro del sonno, non fa che ripercorrere, nella sospensione onirica, alcuni
eventi del proprio passato (e non sogna,
dunque, un avvenire: il che significa, infine, che non lo spera nemmeno più).
Il
poeta, impietosito di lei e di se stesso, non può che destinarle un dolce
saluto: una specie di laica, delicatissima benedizione che ha tuttavia
qualcosa, in sé, di cupamente irrisolto, di oscuro e di disarmonico. Si noti il
dolente affanno provocato dalle allitterazioni delle parole «imperfetta», «atterrita
tenerezza»: e si noti, poi, come queste interne, spesso celate concordanze di
suono e di immagine siano capaci di farci intendere le azioni descritte come se
fossero ansiosamente imprigionate, bloccate, ingabbiate in una rete di successioni
già decise e stabilite: ed è come se ogni gesto fosse nevroticamente legato e
costretto a muoversi nella trappola inesorabile di una tragica, costante coazione a ripetere.
3.
Continua,
allora, il gioco tormentoso delle azioni vane e tuttavia necessarie.
Leggiamo
questo passaggio curioso e disperato insieme:
Ho
scritto alcune lettere ad amici
che
non mi perdonano e che non perdono.
La
scrittura, qui, non rincorre la comunicazione,
né, tantomeno, la riconciliazione. Non si scrive per accomodare, per medicare,
per sistemare.
No:
si scrive per rimettere ogni cosa in discussione; si scrive per opporsi e per
combattere, per demolire e per contraddire, per dubitare e per dissentire.
Non
c’è liberazione, né protezione, né rifugio, né grazia, né protezione. Chi
scrive non ricerca vie di uscita. Non
teme per la propria incolumità: il ritorno dell’uguale ripetersi delle vicende
del mondo lo spinge quasi disperatamente
a voler contrastare l’incontrastabile.
Follia
e felicità di chi scrive: non voler perdonare e non voler essere mai perdonati.
Si
potrebbe, a questo punto, aggiungere: come
difendere ancora l’insostituibilità della lingua poetica? Come assegnare ad
essa il compito di un’altra strada
(non certo definitiva, né «privilegiata») per l’analisi e la comprensione della
realtà? Insomma la poesia riesce ancora a depotenziare e a deporre «l’immagine
mistificata, ossia la forma illusoria, che la classe oppressa ha di se stessa?»
(sono parole dello stesso Fortini, in Verifica
dei poteri,1965).
Il
dubbio, in merito ai limiti e alle difficoltà della scrittura poetica, ci sono
sempre, e continuano, persistono, ossessionano il poeta stesso.
Ha
osservato Alberto Asor Rosa: «far poesia non è dunque, oggi, quando i termini
del contrasto di classe hanno raggiunto la loro nudità estrema ed essenziale,
niente di più che cedere all’invito suggestivo di una tradizione, anzi d’una consuetudine
cristallizzata. Non so come, a chi tratta parole in forma letteraria, non si
geli la lingua in bocca, ogni qualvolta arriva ad essere capace di intendere la
condizione nella quale il mondo si trova. Mai la necessità ha raggiunto un livello
così estremo, mai le parole sono state così inadeguate allo scopo».
Tuttavia,
l’esemplare compostezza tragica di un
testo come La partenza può fornirci,
in vero, un piccolo conforto e una risposta provvisoria: la poesia che è
intesa, appunto, come espressione di una «formalità che è solo esperibile
nell’opera come tale» e che «non è imitabile o riproducibile o imitabile nella
vita del singolo, ma solo nel contesto di una società umana e del suo
cospirare» (F. Fortini) potrà continuare a difendere la propria insostituibilità
e la sua necessità, in virtù, appunto, del suo porsi come oggettiva e comune
risorsa di pensiero e di riflessione.
4.
Abbiamo
parlato, dunque, di strane, incongrue, incomprensibili azioni (incomprensibili
sia dal lettore, sia dal poeta stesso): ed ecco, chi è pronto alla partenza
(anzi: chi è costretto alla partenza?)
si dedica a un cerimoniale fitto di gesti inconcludenti e labili: ricordare,
riordinare; preparare gli appunti; scrivere lettere ad amici (o a nemici?);
salutare; non perdonare.
Ora
il persistere in tali azioni «impotenti» ci fa pensare, in realtà, a una
purgatoriale dimensione, entro la quale i movimenti risultano perennemente
monchi, difettosi, quasi privi di intelligenza: la loro sorda, ottusa insensibilità
ci ricorda quei sogni nei quali si cerca di parlare o di gridare e poi non si è
capaci di emettere alcun suono; o quegli stessi sogni in cui si tenta di
camminare, o addirittura di correre, di saltare, e le gambe restano lì, ferme,
crudelmente inchiodate al dolore e al silenzio di un’improvvisa paralisi.
C’è
un notevole peso «psicologico», o meglio «psicanalitico», (e, dunque, in senso
lato, «patologico») che grava su tale ambigua serie di azioni (e di pensieri)
che dà l’idea di una curiosa danza ferma e che ci fa sospettare, poi, che questi
stessi gesti deboli e improduttivi siano, in vero, l’espressione di una segreta
propensione a muoversi, da parte dell’io narrante, dietro la spinta di atti mancati,
sempre tendenti all’inconscia confutazione e all’interdizione, alla
decostruzione e alla cancellazione di ogni ipotesi di ideale, finale sogno di
ricostruzione o di palingenesi: se tutto è in rovina, c’è solo da lasciare, c’è
solo da partire.
5.
È
proprio l’assenza di un’idea di rigenerazione, non vogliamo dire «metafisica»,
ma almeno «spirituale», a convincere il poeta della necessità di una sparizione,
di una resa, di una sospensione.
Nessuna
salvazione resta a confortare gli occhi privi di illusione dell’uomo.
E
poi vi è un tarlo, una ossessione che affanna e attacca e scuote colui che, malgrado
la confusione e l’offuscamento del proprio continuo, insanabile sbandamento, si
appresta a lasciare la riva della vita per accedere a qualcosa che non conosce.
Quel
tarlo si chiama Dio: lo straziante risuonare del suo silenzio dilatato è un
colpo insostenibile, è il segno di una lacerazione che non troverà mai pace,
mai soluzione, mai consolazione.
Il pauroso
dolore torna di nuovo a mordere.
E il
tempo già ritorna ad assillare; è lì a percuotere la vigile tensione del
viaggiatore stanco e pronto a tutto:
E
ora sul punto di dormire
un
terribile dolore mi morde
come
mille anni fa quando ero bambino
e lo
chiamavo Iddio, e Iddio è questo
ago
del mondo in me.
Egli
chiamava quel dolore, da bambino, Iddio; e quel nome – quel nome
impronunciabile e inconsistente, così vivo e plastico e fisico; e al contempo
così remoto, così impensabile, così astratto – continua a essere, dopo mille
anni, ancora e sempre avvertito; ora Dio non lo si cerca più nelle preghiere
del mondo altro: ma si registra la scura vibrazione della sua insopportabile
assenza nell’angoscioso volto del mondo stesso, che insegue e ferisce il poeta
con la minima e tuttavia insistente, e lucida, e precisa crudeltà di un ago.
Si
noti l’uso del termine Iddio. Il
poeta avrebbe potuto scegliere qualche altro sinonimo. Si rivolge, invece, a un
nome che ci fa sussultare per la sua inquieta carica di sottile violenza: Iddio è parola più aguzza, più forte,
più decisa, più tagliente, più penetrante di un termine come, ad esempio, Dio. Vi è quasi un che di perforante, di
acuminato, di tagliente: ed è così che la sua assenza si fa ancora più disperante
e inaccettabile. Si osservi ancora
che la lancinante durezza di quell’ago-Iddio è, inoltre, sottolineata e rafforzata
dal vertiginoso enjambement («e Iddio
è questo / ago del mondo in me») che aggiunge una potente frattura, un’amara
ferita, una dolente, fatale separazione tra il penultimo e l’ultimo verso: il
quale ci pare, così, ancor più duro, più spietato, più inevitabile.
6.
Non
si avverte una centralità lirica dell’io perché l’io stesso, qui, si sente
quasi braccato, inseguito, perseguitato.
Vorrebbe
forse, quest’io, in verità, farsi da parte, cessare di continuare a essere il
centro continuo dell’interrogazione, del dolore, della ricerca.
Vorrebbe,
anzi, quest’io, forse per sempre, consegnarsi alla definitiva partenza per
ricuperare l’istantanea immersione nella regione del nulla, sua suprema e inconfessata
aspirazione.
Sergio Givone
osserva che la parola d’arte «lavora a custodire il valore e il significato dei
contenuti dell’esperienza umana nello splendore della loro nullità. E mentre li
riporta, tutti, all’orizzonte d un naufragare necessario, proprio così li
consegna all’essere e li custodisce, li salva: singolare forma di fedeltà alla
terra attraverso esaltazione del negativo».
Il viaggiatore
desidera essere lasciato dal persistente, crudo pungolare dell’ago-mondo,
dell’ago-iddio.
Vuole uscire di
casa, abbandonare la terribile rete imprigionante della sua coazione a ripetere.
E ciò potrebbe
avvenire tra poco, sussurra a se
stesso il poeta (e che cosa è mai, questo pensiero? Un timore o un augurio? Una
constatazione o un presentimento?).
L’atmosfera,
adesso, si tinge di un impreveduto colore che diremmo, per un istante, quasi pacificato. Cala una specie di morbida,
indifferente, insperata dolcezza che rende ancor più determinato il passaggio
dal fuoco della vita all’accoglimento del proprio
tramonto.
Fra poco, quando
dai cortili l’aria
fuma ancora di
notte e sulla città
la brezza
capovolge i platani, scenderò per la via
verso la
stazione dove escono gli operai.
Contro il loro
fiume triste, di petti vivo,
attraverso la
mobile speranza
che si ignora e
resiste,
andrò verso il
mio treno.
Soffermiamoci,
ora, per un momento, sul senso di questa immagine, che si direbbe un poco assurda,
contraddittoria e straniante:
e sulla città
la brezza
capovolge i platani
Ebbene, come può
mai una brezza capovolgere un platano?
È, forse, una visione
paradossale che tende a esorcizzare, parodiandolo, il pericolo del «poetico»?
Perché, lo si ricordi, è proprio dal poetico o dal letterario che Fortini cerca
sempre di fuggire.
Perciò, la
narrazione di questo viaggiatore in procinto di superare i confini del mondo
per diventare nulla si snoda seguendo
percorsi fondati sulla non consequenzialità, sull’illogicità razionalmente
organizzata, sullo sfasamento interno delle contraddizioni e sulla inesauribile
interdizione del concetto di progresso nel movimento della vita dell’uomo: le
azioni sono inconcluse, si scrive senza sperare risposta, si organizza un
lavoro che non si svolgerà; e l’ordine delle cose non ha senso, tutto si perde
e si rinnova, risplende e finisce, appare e si distrugge: Dio è un ago, e
s’incarna nel mondo incomprensibile e ostile delle forme, anch’esse ferocemente
affilate, sorde, ineffabili; la brezza docile e sottile capovolge i platani; e
non si percorre una via, ma si scende
per essa, come se si fosse risucchiati, annullati, polverizzati.
7.
E il gruppo
degli operai avanza (si trascina,
forse?) come un fiume triste.
Se lo
intendessimo come un grande corpo che stenta e soffre e lacrima, allora
l’aggettivo triste ci parrebbe pleonastico.
Ma quel fiume è
anche di più: è l’essenza transeunte della vita medesima; è il suo
essere-per-svanire, il crescere e morire contemporaneamente.
Osserviamo,
ancora, nell’apparizione di questo già remotissimo, «limbico» gruppo di
lavoratori una nuova, sorprendente contraddizione interna: esso è un fiume triste (dunque già prossimo a
scomparire, a disciogliersi, a perire), ma è anche, inaspettatamente, «di petti
vivo». Che cosa si vuol intendere, dunque? L’espressione – che diresti quasi
enfatica, eccessiva – ci fa scoprire, con meraviglia, il disperato vitalismo di
quell’uomo che ancora desidera «completare» le proprie azioni (e che vuole ricordare
soltanto ciò che è – o che pensa di essere – e non ciò che non è).
Nell’uomo vinto
dalla speranza e dall’illusione della possibilità di costruire e di assegnare
un valore e un senso al proprio operato succede, infatti, che malgrado il suo
inevitabile precipitare verso l’essere-per-la-morte si scopre fiducioso e
ardente: e lo spinge «una mobile speranza / che si ignora e resiste», perché
diventata quasi un’automatica risorsa, o un bene intoccabile, benché sempre
incerto, provvisorio, mortale.
Il poeta va
«contro» quel fiume triste.
Il sogno
metafisico si è infranto, in lui, da molto tempo. Lo stesso «giuoco» della
scrittura poetica (di certo un giuoco estremo,
perché inciso nella vertigine di un corpo-a-corpo con l’esistenza) sembra,
adesso, non soddisfarlo più: ne avverte un grado troppo alto di distanza
dall’auspicato uso formale della vita.
Il dialogo con
il Tutto si è ammutolito. Si scende soltanto, adesso, per la via
dell’annullamento, della confutazione, del silenzio volontario.
Si smetta di
cercare possibili ricuciture, soluzioni, salvazioni, consolazioni.
Qui la partenza
non aspira al raggiungimento di una meta, o al ricupero di un epistème.
Qui la partenza
è solo allontanamento e polverizzazione: è un auto-congelamento che impone
l’abbandono di tutte le forme già comodamente costituite, e di tutte le maschere
e le invenzioni e le illusioni che permettono all’uomo l’aprirsi della sua mobile speranza e di resistere.
Di tutto ciò, il
poeta-viaggiatore appare tragicamente stanco, e promette a se stesso, alla fine:
andrò verso il
mio treno.
Di certo, non si
allude a un traguardo, né a un
risultato raggiunto, né a una speranza ricomposta.
Ora bisogna
immergersi in quello splendore della
nullità già citato da Givone: un atto necessario, oggettivo, che non può essere
più ritardato con l’impiego di qualche illusivo strumento patetico-ricompositivo.
Non si
dimentichino, poi, le segrete (inconsce?) polivalenze di certi termini usati
nel testo poetico: treno va inteso
anche, naturalmente, nel suo più recondito significato etimologico di lamento, di pianto.
Ma non c’è
commozione, né auto-commiserazione, né sconcerto.
Si giunge al
termine del cammino. Ed ecco: attraverso lo specchio bruciante della poesia noi
già riconosciamo l’aspro dono della stessa verità.
Perché poco
prima che tutto sia finito, si profila l’immagine di uno spettro, la proiezione
di un implorante fantasma.
Quello spettro mostra
il volto di chi parte senza più ritornare: è il volto di ogni uomo che si
interroga e stupisce, e che si aggrappa alla parola, all’azione, alla scrittura
per creare e per distruggere, per costruire e per dimenticare, per sognare e
per cancellare.
La partenza è cominciata,
in vero, dal nostro primo sguardo: non siamo mai tornati indietro
in nessun luogo, né siamo andati avanti,
verso qualcosa.
Siamo stati
trafitti da un ago oscuro, insistente, inestirpabile: non ci è sopraggiunta
nessuna nostalgia, perché abbiamo affidato all’amore la possibile speranza di
una lotta, l’ipotesi di una necessaria, dolorosa resistenza.
Qui siamo giunti, ci ricorda la voce ansiosa del
poeta; e qui dovremo riconoscere l’antico morso, e stupirne di nuovo, ancora e
sempre: e si dovrà tentare, infine, la strategia dei nostri movimenti assurdi e
inconcludenti, antichi e rinnovati, misteriosi e familiari, e senza aver capito
chi siamo, chi non siamo, noi premeremo l’ultima soglia, fissando la sua larga
meraviglia infinita.
Il presente studio è uno dei tre vincitori del Premio Franco Fortini per la saggistica 2011.
1 commento:
"La scrittura, qui, non rincorre la comunicazione, né, tantomeno, la riconciliazione. Non si scrive per accomodare, per medicare, per sistemare.
No: si scrive per rimettere ogni cosa in discussione; si scrive per opporsi e per combattere, per demolire e per contraddire, per dubitare e per dissentire".
Queste frasi del commento le sento molto mie, e la poesia di Fortini mi colpisce sempre: rileggerla è come leggerla la prima volta.
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