lunedì 19 settembre 2011

Mario Fresa. Ritratti di poesia (22)



 Giuseppe Vetromile




La poesia di Giuseppe Vetromile si nutre di una vena narrativa fruttuosamente vitalistica, tutta pregna di nervose pulsioni e di scatti a risalto. L’azione «raccontata» è immersa in uno scorrimento martellante e viscoso, ed è sempre sottoposta a uno sforzo e a una tensione che si auto-alimentano senza tregua, rimandando e respingendo il termine e il compimento del proprio fine con l’aiuto di una inesauribile esitazione costantemente ferita dalla riapertura di riaffioranti proponimenti e di improvvise ispirazioni.
Il soggetto non riproduce gli eventi che si mostrano, ma, piuttosto, li registra passivamente, nel gorgo di una cosmica (e per certi aspetti comica) sottrazione di senso e di logica, nella quale il continuo prolungamento e l’ansioso dibattersi dei movimenti pongono il lettore sulla scena di un teatro fittamente attraversato da una serie irrefrenabile di azioni mancate, avvolgendolo in una specie di sogno trafelato che appare puntualmente interrotto e poi ripreso, e mai condotto, però, a una soddisfacente conclusione.
L’ossessione del soggetto che rincorre le perdute coordinate della logica consequenzialità delle azioni si rivolge, in particolare, all’illusione di saldare o di rifondare la costituzione di un’identità più o meno stabile, sempre affannosamente dedicata alla costruzione di un dialogo con un «tu» che, parallelamente, sfugge e si sbriciola, si sottrae e scompare, diluisce ed evapora.
Dire qualcosa, dunque, coincide con una mancanza irreparabile: la scrittura non ferma né definisce lo stupore indescrivibile di questo vuoto incombente, ma ne amplifica e ne sottolinea i buchi, le ferite, gli interni dissestamenti, piombando, alla fine, diremmo antidialetticamente, in un gorgo di semi-gesti, semi-sentenze, semi-allusioni che pure ambirebbe alla possibilità di aderire a un’ipotesi di «nominabilità» del proprio esserci. Il «mia cara», affannosamente reiterato, è solo il segno paradossale di una vibrazione fantasmatica, è solo la proiezione di un effimero, ideale, transitorio legame. Così, il pervicace discorso diretto a qualcuno che (non) è in ascolto produce, infine, «ombre di parole», e anche ombre di non senso, proiezioni di gesti vani e interdetti, soluzioni provvisorie, conclusioni evasive ed elusive, dinamiche spezzate.
«Non so quanto durerà questo mio nome senza sbiadire», chiede e si chiede il soggetto stordito dal suo propulsivo muoversi in avanti (ma si tratta, in verità, di un muoversi in nessun luogo).
La poesia che narra non può descrivere altro: la labile apparizione-sparizione di un istante che sconcerta e ritrasforma senza preavviso la desiderata orizzontalità degli eventi. La poesia tenta di ricucire le sospese inettitudini dell’esserci, e ogni gesto non è mai stato, ogni nome è innominato, ogni preghiera è afona, ogni verso è lanciato su piattaforme aeree, tragicamente segnate da un destino di pulviscolare fragilità: è il destino di una finale e incontrastabile polverizzazione (il «tritacarne ronzante») capace di azzerare e di destituire, in un istante solo, soggetto e oggetto, azione e identità, parola e desiderio.








Cadono i nostri nomi dalla rubrica usata


Che siamo mia cara se non un nome scritto nella rubrica
che poi zeppa e sgualcita va gettata nel dimenticatoio
e noi senza più un’illusione marcata con la biro
girovaghiamo tra i righi e le pagine d’un cosmo
immaginario

stretto il corridoio e lunghissima eternità come un
rettifilo affollato e tu ed io incatenati l’uno all’altro
verso una meta che non vogliamo
al confine del cielo
trascinati dalla folla unidirezionale diretta
all’altro capo

Che siamo mia cara
:nomi pronunciati da labbra inconsapevoli
ombre di parole e basta
sgusciamo dalla terra senza saperlo e
vi ritorniamo certi
noi cancellati e dissolti come su una lavagna fredda
e nera

mai più rintracciabili da mani umane né da pensieri
fraterni
o incorniciati sul vecchio comò coperti da una patina
di tempo malinconico

Cadono i nostri nomi dalla rubrica usata
qualche vocale o consonante resta appiccicata al bordo
stenta a sgocciolare nel tritacarte ronzante

:una goccia di noi che alquanto spera

*** 

Non so quanto durerà questo mio nome senza sbiadire
l’inchiostro è buono ma non eterno
e poi
l’eterno pure dura poco in questo posto
così infinito che sembra avere spazio e tempo
incontenibili in un soffio d’amore
e in un anelito di Dio


***

Mia cara
e ora basta sperare
:bisognerà presto vestirsi di nuovi nomi d’aria e partire
di città in città senza sapere senza vedere senza sentire
il boato della vita che ci nasce dentro impercettibile

per noi assurdi pellegrini verso il santuario della verità
mai nome di argilla o di carne ne potrà essere adatto conduttore

***

Eppure nel vuoto non pronunciamo mai il nostro vero nome
racchiuso nel cellophan del cuore sdrucito
è un segreto che non sappiamo estirpare
è un paradiso che sorvoliamo
un sussurro che ci distrae

eppure nel silenzio non conosciamo il nostro vero nome
e il grumo di cielo che vi è descritto
e il dito di Dio che continua a scriverlo
e poi quando finisce il mondo
si scioglie come goccia nel mare

eppure
ci richiudiamo nell’apposita casella
in equilibrio tra un rigo e l’altro
e poi quando finisce il tempo
cade il nostro nome innominato

e si confonde tra le infinite parole del creato




 (inedito)









Giuseppe Vetromile, nato a Napoli nel 1949, vive ed opera a Sant’Anastasia, nei pressi del famoso Santuario di Madonna dell'Arco, promuovendo e organizzando eventi ed incontri letterari con il suo Circolo Letterario Anastasiano. Poeta e scrittore, ha pubblicato numerosi testi di poesia con importanti Editori come Bastogi, Scuderi, Ripostes, Samperi, e, con l'Editore Kairos di Napoli, una recente raccolta di racconti, intitolata Il signor Attilio Cindramo e altri perdenti. Dirige la Collana di poesie «Il retroverso» per conto delle Edizioni del Calatino di Giuseppe Samperi di Castel di Judica. È l'organizzatore dei concorsi nazionali di poesia e nerrativa «Città di Sant'Anastasia» e «Il filo della memoria», entrambi patrocinati dal Comune di Sant'Anastasia. Ospita testi poetici di importanti Autori e relativi commenti sul suo blog «Transiti Poetici». Suoi articoli, note critiche e varie recensioni, sono apparsi su diverse riviste letterarie nazionali e sulla stampa on-line.






1 commento:

C.L.A. - Circolo Letterario Anastasiano ha detto...

Inserisco qui il commento di Mariolina La Monica che gentilmente mi ha trasmesso, ringraziandola per l'affettuosa e puntuale nota.

Poesia splendida e infuocata che, a mio avviso, si alimenta dell’istintivo pathos dell’autore e ci dona degli impulsi sia di un vortice che rimanda alla terra, sia del desiderio di un sottotaciuto e sommesso volo che riporti l’essere al cielo. Essere che, tuttavia, appare come forzato ad alimentare, volente o nolente, la terra da cui proviene con una cruda e spietata logica ed un affanno che rendono l’idea della sofferenza e della fragilità del suo volo trascinato com’è “dalla folla unidirezionale diretta all’altro capo” (ossia, in senso inverso dal luogo in cui il suo anelito vorrebbe condurlo).
Grazie a Mario Fresa per averci dato la possibilità di apprezzarla e complimenti sinceri all’amico Pino Vetromile.