mercoledì 24 agosto 2011

Su Il cielo aperto del corpo di Fabia Ghenzovich

Kolibris Edizioni, 2011
recensione di Vincenzo D'Alessio
Nella collana “Chiara” delle edizioni Kolibris di Bologna, è stata inserita la raccolta poetica di Fabia Ghenzovich, Il cielo aperto del corpo. I versi, pregni di una giovane forza vitale, sono la ricerca/scoperta del proprio vivere in mezzo ad una umanità non sempre disposta a scrutare “il cielo aperto”. Oggi si vive a testa bassa, piegati sulle esigenze continue del sopravvivere e di alleggerire le pende dell’esistenza. In altri momenti si direbbe un’egoistica necessità di essere presenti.
La Nostra, invece, è in lotta con il proprio corpo e i suoi confini, alla ricerca di quella “urna d’acqua” che Giuseppe Ungaretti ritrova, per riposarsi, nelle acque dei fiumi dove riconoscersi: “una docile fibra / dell’universo.” 
La parola “confine” compare nei versi di Ghenzovich almeno per tre volte, in tre momenti compositivi della raccolta: nell’ingresso, nel primo atto e dopo l’enunciato de “In principio”.
I confini dell’Autrice sono in trasparenza, perché lei è “muda sorgiva”, e generano il tumulto nella terra di mezzo rappresentata dal corpo; mentre un respiro più potente e forte vuole levarsi e portarla in acque lontane:

Nuovo alla luce un sentire
d’infanzia sepolta nel corpo
una nascita possibile
un mare dentro. (pag. 36)

La poetessa è ancora “in cuna”, in sofferta ricerca della “forma nata da me / lo spazio aperto / l’ Io inverso” (pag. 37). Badate l’io è scritto con la maiuscola.
Una carica di energia attraversa l’intera raccolta: il corpo è solo lo strumento musicale imperfetto che s’inclina alle note della Poesia. Quale Poesia? Quella intimista dell’adolescente o l’acerba forza che respirerà nel magma della continuità? 
Mi sorprende la bella gestualità dei versi di questa raccolta, la grazia con la quale la penna, incerta, cerca l’abbrivo per le future sofferenze che la strada dei poeti conosce. Una composizione in particolare unisce l’apertura di questo cielo limpido, nascosto ancora nelle nebbie mattutine, al corpo del Mondo (“Mater matrigna matrix”, pag. 33) e forma la vocale costante del portare su di sé (il gerundio) di alcune composizioni presenti in questa raccolta:

Dopotutto sembra quasi uno scherzo
di natura che gioca col senso comune
di ogni cosa che appare però diverso
in una luce nuova come non pensavi (pag. 17)

La eco del Novecento è forte e presente, come per noi, nei versi insostituibili del nobel Eugenio Montale :

Vedi, in questi silenzi in cui le cose
s’abbandonano e sembrano vicine
a tradire il loro ultimo segreto,
talora ci si aspetta
di scoprire uno sbaglio di Natura,
il punto morto del mondo, l’anello che non tiene,
il filo da disbrogliare che finalmente ci metta
nel mezzo di una verità.” (I Limoni, Mondadori)

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