sabato 20 agosto 2011

CONTRO LA POESIA MEDIOCRE

Qualche anno fa Quentin Tarantino a Venezia dichiarò che il cinema italiano gli faceva schifo. E ribadì il concetto sottolineando che non sopportava la compiaciuta e provinciale autoreferenzialità dei lungometraggi che negli ultimi anni erano stati prodotti nel nostro Paese. Già il piglio molliccio e il tono confidenziale bastavano per bollare quei lavori come inguardabili. Non occorreva andare oltre, trattandosi pur di film confezionati bene da un punto di vista tecnico. Io ho lo stesso moto di ribrezzo nei confronti della poesia cosiddetta “intimista”, “confidenziale”, “delle piccole cose”. Già come atteggiamento e scelta mi pare nasconda quell'egoistico pensarsi interessante dietro un finta e artificiosa timidezza. Può un poeta arrivare a concepire che il suo microcosmo, fatto di piccole molle, sia più interessante della piega che dopo l'11 settembre del 2001 ha preso il mondo? Può il poeta far credere interessante la sua mediocre esistenza creando una sovrastruttura dove lui è insieme direttore e primo interessato a sentirsi risarcito della sua vita piccolo borghese? Forse andava bene nei romanzi ottocenteschi. Quando il mondo era circoscritto ai luoghi di villeggiatura della campagna inglese. In realtà Gilles Deleuze prima di lanciarsi dalla finestra, depositò tra le pagine del suo saggio “L'Esausto” la conferma a questo mio disappunto. Egli parla della “lingua delle parole” dicendo che è oppressa dai calcoli, dai ricordi, e dalle storie. E' la lingua II. In questo formidabile saggio egli infatti distingue tre lingue: la lingua I dove l'immaginazione combinatoria è viziata dalla ragione. E' molto facile pervenire nelle poesie mediocri il macchinoso procedimento che le ha generate. La lingua II è quella che inventa storie, o fa l'inventario dei ricordi basandosi su una immaginazione viziata dalla memoria. Cito Deleuze: “E' molto difficile fare un'immagine pura, incontaminata, nient'altro che un'immagine, raggiungere il punto in cui sorge nella sua singolarità senza più niente di personale o di razionale e accedere all'indeterminato come allo stato celeste.”. E la lingua III, non è più quella dei nomi o delle voci, ma quella delle immagini, sonanti, coloranti. La lingua III è dunque capace di ricongiungere le parole e le voci alle immagini. La lingua III è la lingua della poesia oggettiva. Quella di Dante, di Leopardi e tanti altri.
Ecco perché ritengo mediocre e furbo l'atteggiamento che si nasconde dietro la poesia cosiddetta “intimista”. Non solo l'atteggiamento, ma l'oggettivo valore di quelle composizioni che senza nulla dire si rotolano compiaciute nel vizio del rispolverare i “problemucci” della propria esistenza.

Noto, 20 agosto 2011

Sebastiano Adernò

4 commenti:

Davide Castiglione ha detto...

Si può essere d'accordo in linea di principio, ma poi vanno sempre visti (e citati) i testi, secondo me; se un impianto intimistico-confidenziale (che pure a me non piace) si rivela adatto a fotografare, anche di sbieco, una situazione più vasta, se va oltre il microcosmo, è per me molto più interessante che una poesia civile-sociale che si serve di formule retoriche già risapute. Ci sono grandi poeti "oggettivi" (ma non mi piace questa definizione) e "intimisti", io credo che il tutto stia nell'aderire del poeta alla propria sensibilità e a farla dialogare comunque col mondo, di oggi e di ieri. Altrimenti, sarebbe troppo facile parlare del mondo (sul mondo), per quello ci pensa già la cronaca...

Davide Castiglione

Sebastiano Adernò ha detto...

Io credo che la pensiamo allo stesso modo. Il mio disappunto sta in chi per nascondere l'incapacità di scrivere poesia si cerca l'attenuante intimistica o sociale. Dando vita ad una poesia che non potendosi sostenere sulle sue gambe, parte dalla giustificazione di sè stessa. Quasi che motivi come il proprio dolore personale siano sufficenti a sgombrare ogni dubbio sulla povertà linguastica e lessicale di tanta poesia che oggi si pubblica.

Matteo Poletti ha detto...

Se devo essere sincero, il termine "intimista" non lo considero in senso spregiativo. Si può essere intimisti e usare la propria esperienza come testa di ponte per gettare uno sguardo sulla realtà, una realtà che magari non si ha la pretesa di comprendere o interpretare, ma solamente raccontare, descrivere o anche soltanto immaginare. Si può cercare di dare una chiave di pensiero che, se non condivisibile, possa almeno essere fruibile per il lettore. Credo che partendo da un "personale" opportunamente "spersonalizzato" si possa raggiungere un pubblico che si estende anche oltre la punta del proprio naso, ma non scopro nulla di nuovo, è un modo di fare poesia che esiste dai tempi degli stilnovisti. Credo che Sebastiano Adernò ce l'abbia con quei testi che non risultano nemmeno fruibili per un lettore, quei testi che una volta letti ci fanno pensare "E allora?". Sono d'accordo anche con Davide Castiglione quando parla di certa "poesia civile-sociale che si serve di formule retoriche già risapute". Io credo che la cosa importante sia la più banale di tutte: avere qualcosa da dire, qualcosa che possa essere ascoltato e suscitare una domanda, un ragionamento, un dubbio.
Matteo Poletti

Matteo Poletti ha detto...

Che figura, non mi ero accorto di essere connesso con il nick che usavo sul blog del mio collegio universitario pavese...
chiedo venia :)
Matteo Poletti