Questa raccolta di liriche è un altro omaggio che Carla De Angelis fa all’umanità.
Se non cura i mali del mondo, se non cura i mali personali e/o sociali, la poesia però possiede l’energia che solleva la miseria di noi mortali, ci guarda dentro, scopre il brillio delle stelle fra ciottoli e polveroni e misture sgradevoli e ci proietta a breve distanza da Urano, questo lontano freddo pianeta che però appartiene al nostro mondo di sole e di dolore. Il sole è lontano, ne rabbrividiamo, sentiamo la sua mancanza come un’ombra, una ferita che non cessa di dolere, non sappiamo fare altro che ruotarci intorno ma con la consapevolezza di appartenere alla vita delle creature che dalla luce ebbero coscienza e crearono con la luce (maiuscola o minuscola che si preferisca), il percorso della consapevolezza, della mutazione.
Carla è poesia senza ismi: chiara, netta, onesta. Non gioca con le parole, non usa la retorica, non enfatizza eventi e sentimenti; con la penna salda traccia sul foglio la nudità delle percezioni, la sobrietà di una pena che dura e che cammina a braccetto con l’amore e la gioia; è un eterno presente che non rimpiange il passato, semmai fa un uso strumentale di frammenti di tempo, e neppure si proietta verso il domani. Carla sa che anche domani non avrà via d’uscita dal male, e neppure lo vuole; un po’ di riposo brama, una sosta, una oasi. Non ha maschere Carla, non si atteggia a intellettuale: ella è, prima di ogni altra definizione che sarebbe diminutiva e parziale, creatura umana, che trae forza dalle sue fragilità, se ne ammanta e va per le strade della sua Roma, ma potremmo dire del mondo, senza la ricerca di percorsi salvifici, senza oltraggiare e offendere la vista altrui con i suoi mali.
Del suo atteggiamento verso la vita e le situazioni dolenti non scelte ma mai rifiutate, Carla confessa: “Non estirpo la gramigna / la mieto ogni volta che cresce / smoderatamente”. Soffermiamoci sulla molteplicità dei significati di questa poesia quasi epigrafica: la gramigna è infestante, di poca o nulla utilità ma si prende spazi su spazi; occorre estirparla, rubarle la terra, invece Carla usa il termine – mieto – come se essa fosse grano, essenza della vita; e smoderatamente a chi è riferito? Alla crescita della gramigna o all’azione di mieterla?
Ma la vita è più forte del suo contrario così può capitare che “In attesa dell’inverno per potare le rose, / del freddo per accendere il caminetto / non mi accorgo / è tempo di semina.”
Ecco, pare dire Carla la vita è anche perdere attimi di felicità, sospensioni del dolore, la vita è annodata a cime ruvide con un filo di seta, tenace e quasi invisibile; la vita è nel gesto di non calpestare i disegni che tappezzano la stanza dei più sfortunati.
C’è grande rigore stilistico e morale nella poesia della De Angelis e se pare che l’attenzione sia soprattutto accentrata sul sé, scopriamo che questo sé ci appartiene, è un moto del nostro animo, siamo noi nei nostri momenti più degni.
A volte il fuori, gli eventi che rimbombano sulle plaghe terrestri, entrano di soppiatto anche in questa raccolta; ma , come dicono i fisici, il volo di una farfalla può scatenare lontane tempeste. Le tempeste della poetessa ci chiamano ad una presenza non evasiva, pronta alla responsabilità, all’ accettazione delle nostre e delle altrui fragilità.
Perché il dolore può diventare per tutti sorgente di dignità, di rispetto, di intelligenza del mondo e di accettazione dei suoi misteri, delle sue ineluttabilità.
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