recensione di Narda Fattori
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Enrica Musio è poeta, poetessa, anche di spessore e anche spudorata: mette a nudo le sue esperienze, i vuoti, le perdite, le assenze e il suo dolore, i suoi vuoti; ma ella sa che la visione è il premio per tanta fatica: “C’è un vecchio spossato e curvo / lentamente cammina / nella sua eterna / vecchiezza / trascorrono / grandi / visioni.”
Ma non si creda che le poesie della Musio rivestano l’abito della sapienza, esse rifulgono di un mite dolente splendore che non esita a farsi ironico, quando serve, quando non c’è poi nulla da dire se non il raccontare con tutto il senso che il racconto trascina.
C’è uno iato fra il mondo dei sogni e delle speranze e quello che quotidianamente impattiamo: quanto il primo sorgeva, quanto il secondo procede per tramonti ed addii, ai luoghi, alle persone, a noi stessi come eravamo e più non siamo e così “… / mentre il cielo / riposa / il mare sembra andare a fondo”. Già il dettato poetico, così ben padroneggiato dalla Musio, lima gli artigli di una poesia che non chiede adesioni emotive, chiusa com’è fra essere ed esistere, con qualche visione all’esterno; artigli sì, perché scende in profondità per portare alla luce le ferite, ma “ … / nella vita si nasce poi si muore / poi ti svegli / e ti accorgi / di respirare”; ma respirare non è un merito né una colpa, è una condizione ineludibile anche nei momenti in cui si vorrebbe sospendere il tempo.
E prosegue la Musio nella sua ricerca che ha risposte parziali, non durevoli, non risananti; ma si può durare se si ha la certezza che si è in transito, che oltre ci attende un altrove, rifugio di ogni bene.
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