mercoledì 26 maggio 2010

Su Sputami a mare di Stefano Bianchi

Fara Editore 2010, € 10,00

recensione di Narda Fattori

Stefano Bianchi, poeta per caso, è tornato ad essere visitato dalla Musa e lui, attento e avvertito, l’ha accolta e, malgrado le reticenze, si è lasciato sedurre dal canto, dalla visione rarefatta, dalle rifrazione della luce.
senza saperlo nemmenoÈ una poesia quasi elegiaca, con le suadenti immagini che recano i sogni, ma anche con improvvise consapevolezze di stare tradendo una vocazione all’inquietudine che ne salva l’identità.
Quasi in chiusa, all’interno di una poesia che dà voce ad uno stare “inconsistente”: “La finestra illuminata / di scatto si richiude / le ante sbattono sui muri / il tempo prende la rincorsa / ci ripiglia e ci mulina.”; dunque continuerà la fatica di individuare una meta, una sosta che duri per incontrare il riposo, un traguardo, degli obiettivi.
Stefano sa che abbandonarsi al canto lo porterebbe alla rovina, accecherebbe la sua volontà e altri compirebbero la scelta che già gli è impossibile fare fra “fuga e responsabilità” perché ogni scelta comporta una perdita, e una solitudine e che ora non si può più tornare all’innocenza dei bambini.
Ma allora lo smarrimento si moltiplica, si perde ogni orientamento e tutto congiura per schiantarci dentro un mare d’inverno che trascina oggetti residuali, ormai privi di un punto di partenza, cioè di un punto da cui sono partiti, perché se quel punto, logos o topos è individuato, magari penosamente e in solitudine, si potrà individuare la meta. Ma dentro questo smarrimento ci sono attimi/luoghi “insensatamente felici” come lo scorgere, con la meraviglia del vedente, una radura di verde, la distesa azzurra del mare. Allora il dubbio sull’arrivo cessa e si può pensare che tutto sia nella corsa, che il destino dell’uomo si compia nel suo farsi quotidiano, incespicante ma mai reso.
Illuminante, a questo proposito, è la postfazione di A. Ramberti che invito a leggere perché oltre che sulla poetica di Stefano Bianchi pronuncia una dichiarazione di vitalità e di necessità della poesia, comunicazione che libera dall’energia che grava sull’anima, negativa o positiva, e sommuove “la pigrizia intellettuale”.
Ma torniamo al dettato del poeta sempre lessicalmente quotidiano, ma molto giocato sul ritmo, ora disteso, più spesso ritratto, di pochi suoni nel verso, ma armonici, come un’elegia appunto.
Di una silloge di poesie che non vogliono essere una confessione ma una ricerca del sé segnata dalla più nuda e tremante verità, mi pare giusto citare i versi finali della poesia Inverno (pagg. 33/34): “ … /Sta a te tirare i dadi / a noi andare /di casella in casella. / È il turno / niente di triste / niente di che”. Sono versi importanti, da poeta.
Resta forse da interpretare il titolo, volutamente basso, quasi di sprezzo; ma occorre sapere che Stefano ama immensamente il mare, le passeggiate sulla riva, il perdersi nel calmo azzurrato o nel grigio tumultuoso. È il suo infinito, il luogo dove si incrociano tutti i luogi e tutti i destini; ma è anche il luogo dove smarrirsi e perdersi, anche per sempre. I versi sono sputati a mare come un dono e lui parimenti è sputato a mare nella ricerca di punti fermi, di un porto che però non cerca, di un approdo che non vede.
Molte poesie sono segnate da una specie di voce in contrappunto, a piè di pagina, in caratteri minuscoli: sono voci, momenti, esperienze che vengono da lontano, da un infanzia riminese che si fa quasi mitica; sono una specie di coro etico che accompagna i versi e riporta ogni volta alla pesantezza della terra Stefano, lo chiamano alle radici, ai primi graffiti nella sua anima.

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