giovedì 21 gennaio 2010

Su “Parlino di noi le cose scomparse…” di Stelvio di Spigno

di Vincenzo D'Alessio

Riprendo dal sito di FaraPoesia il tanatologico ottavino di Stelvio Di Spigno per seguire le note alte e forti che si sciolgono nel fiume della Poesia. Una poetica amica della classicità, del verso endecasillabo che richiama maestri dei secoli scorsi: “Ma la festa ora sperde nei canali / i flussi d’allegria del giorno andato” (Congedo vitale), sembra di ascoltare i versi di Leopardi del Sabato del Villaggio, come pure più avanti quando nella poesia Scirocco scrive: “Così la vedevo da bambino, / la campagna di sempre, / rosa come le bambole di mia madre/” – qui vengono alla mente i versi delle Rimembranze. Ma si possono leggere molti altri accenti armonici di Autori del Novecento, come la dedica a Giovanni Raboni nella poesia Ombra. Tutti i versi sono scritti, ché la chiave scelta è “l’ottavino”, sopra il rigo del pentagramma dei sensi; difficili da seguire perché è un discendere continuo “nelle segrete di un cuore moribondo”.
La polvere e il tempo, due elementi onnipresenti nelle poesie prese in considerazione nella raccolta. Due alleati che, aiutati dal modo congiuntivo dei verbi usati, rasenta la familiarità delle vicende portando il lettore in un vortice e ad essere travolto, spostato, dal vento che si leva nella lettura dei versi: “Dolcezza mia di essere interrotto / nei pensieri ossessivi della polvere bianca / (…) È come se il Sahara mi aspettasse sotto casa” (Scirocco). L’analogia è forte, l’inquietudine rasenta quella pazzia dal “battito alterno”.
Cosa cerca il poeta, cosa comunicano i suoi versi? Una risposta immediata non c’è. Sono le cose che parlano dell’uomo. Ma di quale uomo? Di un uomo che vede in una visione onnipresente le parti e il nulla; lo svela e lo disegna; si nutre e se ne duole. Metafisica delle parole che svelano la strada del tempo: “Come di polvere pensosa o di altri / sommovimenti sembra parlare il tempo” (La polvere). Ma il tempo a chi parla? Di chi parla? Di indefinite circostante: “Ma i tuoi occhi cosa vedono senza vedere / e i miei anni come sono / come sono passati senza passare…” (Con questo verso). L’indefinito è la ragione di essere in questi versi del poeta.
Scrive bene del Nostro l’editore Alessandro Ramberti: “c’è un moderno tono elegiaco in questi versi di Stelvio Di Spigno in cui spesso il ritmo dell’endecasillabo sostiene le parti più liriche di una poetica comunque sempre attenta all’intelligenza delle cose”. Le poesie fin qui prodotte vivono di luce propria, indagano il vivere/vissuto contemporaneo che ironicamente spinge in avanti le richieste dei tempi futuri: “Non la vita di tutti che mi chiama / per l’idea di uno squallido lavoro” (Scirocco); “Mentre non valgono più fede o aiuto / tra le fiere saettanti della sera”(Deserto); “Ma se tutto restasse solo un sogno / (un sogno di capanna e di montagna), / di un essere malato in una città infernale” (In montagna). Il poeta è lo scalatore che per primo raggiunge il passo sopra il freddo deserto del ghiacciaio: avverte dei pericoli percorsi, delle asperità e della mèta. L’autore di questa ottava poetica ha conosciuto anche L’Irpinia e la canta nella poesia Il gatto rosso. La svela nei contorni più veri, quelli che solo un poeta sa avvertire: “Così è la memoria, / più visione che ricordo; /(…) / un sonno chissà quanto lontano, forse”.
Ho camminato con Di Spigno in questa raccolta raccogliendo la ricchezza grande: “di un mondo senza nome o con più volti / che non mi ha mai chiamato veramente.” (In montagna)

Gennaio, 2010

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