venerdì 9 ottobre 2009

Su Conoscenza del vento di Marco Bini in Pro/Testo

recensione di Vincenzo D'Alessio



Leggendo le pagine dell’antologia PRO/TESTO, curata da Luca Ariano e Luca Paci, è venuta nel silenzio la voce limpida di un poeta che, accogliendo le voci innovative del nostro Novecento, ha realizzato una poesia che si inserisce nel solco del secolo che è davanti a noi. Una nuova versatilità, sentita, garbata, che supera la violenza che ci circonda e ci affanna. Versi che ci riportano la vita vera, che si snodano ai margini di una civiltà che sarà ricordata per l’utopia di un benessere imperante e irraggiungibile; per la deformazione delle cose semplici come valori inutilizzabili nella vita attuale; per la deformazione dell’informazione, pur di detenere il potere il più a lungo possibile;per il distacco profondo dalla Natura nelle sue dimostrazioni. La voce poetica è di Marco BINI.
La poesia che dà il titolo alla raccolta, Conoscenza del vento, è senza dubbio il testamento spirituale, la tavola kantiana dei doveri, l’aratro che s’innesta nel solco della futura poesia, dandoci il presente: “Volgeva ormai al termine quell’era / degli avi, dei proverbi, tutta intera / liquidata, una firma, il giusto prezzo./ Più nulla che potessimo conoscere / trovammo al nostro arrivo” (pag. 35). In quest’armonia delle parole risento la voce di un altro poeta del Novecento italiano, Umberto SABA. Così la riconosco nei versi di BINI a pag.33: “(…) Avrà fatto il pescecane; oppure una vita dignitosa / al suo paese, la sera al bar, la briscola, il vino / qualche bestemmia; forse era tra quelli col moschetto / ai tempi di Salò, o uno che affrontava a viso alto / la carica della celere, sindacalista”. Fa eco la poesia di SABA della Città vecchia:  “Qui prostituta e marinaio, il vecchio / che bestemmia, la femmina che bega, / il dragone che siede alla bottega / del friggitore”.
“Quand’è che abbiamo smesso di cercare / da dove viene questo odore di rottami?” (pag. 34) è la domanda che pongono i versi fluidi, magmatici, metrici, del Nostro che della vita assapora ogni attimo, ogni fonema del Tempo. Conoscere la lingua del vento, l’insidia dei rapidi cambiamenti, il presente inesistente, che è già passato, e come “una cometa ostenta alle spalle una storia” (pag. 35). Veramente i dettami della Poesia, esperienza del fare, da una visione soggettiva ad un trasporto universale, si addensa in questi versi traducendo negli occhi del lettore le analogie, le metafore, le sinestesie, la maieutica di quel senso ontologico che attanaglia l’Uomo in ogni tempo: “Un mistero rimase come appaia / il presente, d’incanto; è un’impronta / fresca di suola sulla neve, ripida” (pag. 36).
Visione stupenda dell’incanto e della semplicità che l’Umanità dovrebbe avere, per questo suo esistere, dopo milioni di anni, su un azzurro pianeta in armonia con tutti gli elementi viventi sulla superficie e nell’Universo. Il mistero che ci consente di rinnovare la nostra conoscenza e di cercare, come forza infinita, nelle idee, nella scienza, nell’armonia naturale. L’apparire e il divenire. L’impronta, metaforicamente del piede umano, dall’australopiteco all’astronauta sul satellite della Terra, fresca nella neve: il segno dell’Uomo nella sua Storia e, come per la neve, l’impossibilità di trattenere tutti gli accadimenti, ché si svolgono senza la nostra volontà. Mirabile connessione di stati d’animo, ripresi dal reale e tradotti in figure poetiche. Bella ispirazione, come rivelazione prosodica di una processione di parole in perfetta seduta armonica: “Ci colse la / CONOSCENZA DEL VENTO / che tirava, impreparati, una sera” (pag. 35) e seguendo: “Ancora ci sorprende il planare a mezzaluna di una foglia, / appena staccato, ancora un po’ storditi dalla luce piena / di settembre, (…) E invece, restiamo lì impalati, a bocca spalancata, / al centro del nostro mondo” (pag. 36).
C’è un altro giovane poeta, scomparso prematuramente, che richiama il senso profondo della conoscenza del vento come metafora dell’indifferenza umana verso il reale svolgersi dell’esistenza:”(…) Ma nessuno lo ascolta / pochi sanno ascoltare il / vento / nessuno si ferma ad ascoltare / il vento / perché i suoi problemi sono / i problemi dell’uomo” (Antonio D’Alessio, La sede dell’estro, postume, 2009).
Il dolore della scomparsa dalla scena terrena è superato con una delicatezza nuova, con quella meraviglia che accomuna il genere umano a tutti gli esseri viventi sul pianeta: l’invito a ritrovarsi nell’altro, senza sentirlo nemico: “e vorremmo quasi tenerci per la mano, osservando quella foglia; / che ognuno per sé ha già trovato il paragone più immediato” (pag. 36).
Grandi speranze nutrono questi versi in chi li legge, li ascolta; proprio agli inizi di questo nuovo secolo, vittima di troppe sventure.

Ottobre, 2009

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