di Flora Restivo
Sembra un gioco di parole, non troppo originale né tanto intelligente, in realtà si tratta semplicemente di un ritratto del tutto personale del grande poeta che io farò, senza certezza di ottenere il suo consenso, ma speranzosa di ottenerlo.
Sarà, comunque, una vera intervista, pertanto le risposte che verranno date alle mie domande saranno tutte assolutamente, parola per parola, di Franco Loi.
Il problema, se così volessimo chiamarlo, riguarderebbe solo la mia idea di quello che è questo grande artista, indipendentemente da ciò che, di lui, si conosce.
Dirò qualcosa di nuovo, non dirò nulla che già non si sappia? Non lo so, ci provo.
Qualche anno fa fui invitata a presentarlo nel corso di una manifestazione. Onestamente mi sembrò un compito piuttosto difficile, ma, disgraziatamente, amo ciò che è difficile e accettai.
Decisi che avrei dato a questa presentazione un piglio consapevole, ma privo di paludamenti. Conoscevo la poesia, ma non la persona, non avevo ancora Internet, quindi non mi erano pervenute immagini di come fosse fisicamente, ma non pensavo a questo come ad un fatto importante e, difatti, non lo è.
L’incontro non si verificò, causa una furiosa eruzione dell’Etna e tutto finì lì.
Dopo un paio d’anni, mi giunse notizia di un suo viaggio in Sicilia, così mi diedi da fare e mi sorbii parecchi chilometri per avere il piacere di conoscerlo.
Non era un momento della mia vita particolarmente felice, ma era troppa la voglia di vederlo e, magari scambiare due opinioni con lui, che andammo, io e mio marito, corredati di invito, all’elegante “location”, scelta per l’occasione.
Arrivammo prestissimo e, zitti zitti, ci sistemammo, dopo un discreto giretto per i viali, nella saletta, preparata per l’evento.
Improvvisamente mi sentii bussare, con lievità, ad un spalla, mi voltai e mi trovai di faccia ad un signore alto, viso ascetico, occhialoni e… sandali ai piedi (in aprile).
Chiesi: “Lei è il professore B.?” (la gentilissima persona, nonché fine poeta e letterato, che si era presa la briga di mandarmi l’invito e anche di informarlo della mia presenza). “No” mi fa, “Sono Franco Loi e ho pensato di scendere in sala una mezz’oretta prima, giusto per scambiare due parole con lei.”
Fu subito amore, per questa immediatezza, semplicità, assenza di spocchia, capacità di entrare in sintonia con l’altra persona…
Purtroppo, io e mio marito, dovemmo lasciare la sala, prima del tempo, a causa di una sgradevolissima telefonata che annunciava uno sgradevolissimo avvenimento, ma la maniera di porgersi, di questo grande, di avvicinarsi, la capacità di far comprendere a chiunque, con una lettura particolarmente scandita e intensa, il dialetto in cui scrive, la grazia e l’interesse con cui aveva accettato alcune trasposizioni in siciliano, che avevo elaborato da sue poesie, mi lasciarono un’impronta fortissima.
Col tempo, piano piano, i nostri rapporti si sono evoluti, hanno preso un tono incentrato sull’affettuosità, sicché un giorno, gli ho detto: “Prima o poi scriverò di te, a modo mio.”
“Bene, bene – mi rispose, con quella particolare tonalità di voce velata assolutamente inconfondibile – aspetto.”
Sarà venuto il momento giusto? Non lo so, non faccio la giornalista, non conosco le regole del gioco, ma quel che voglio dire è che il Franco Loi che ho l’onore di conoscere,
possiede in sommo grado una qualità che pochi hanno: la considerazione per chi è altro, in tutti i sensi. Ciò porta ad una limpidezza di comportamenti per cui solo chi non vuole capire non capisce il suo pensiero.
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“Buongiorno maestro”, io.
“Di maestri al mondo ce ne è stato solo uno”, lui.
“Allora, come devo chiamarla?”, io.
“ Franco”, lui.
Ecco, in questo piccolo scambio di battute, si pennella il personaggio.
Sono passati alcuni anni, da allora, tuttavia io ho sempre un gran bel batticuore quando lo chiamo o mi chiama e, occorre dire che non sono facile ai “batticuore”.
Ho conosciuto sua moglie, una donna bella, piena di fascino, dinamica ed estremamente… milanese: una coppia affiatata.
Ma adesso, la contumacia del poeta è giunta alla fine, ora occorrono domande e risposte.
Non sono davanti a lui, non ho un registratore, non so stenografare, ma l’intervista mi piace farla.
Ci siamo:
“Buongiorno Franco, spero tu stia bene perché ti porrò alcune domande, quindi, magari, metterò a dura prova la tua pazienza. Non penso che saranno originali, dato che sei avvezzo alle interviste, ma procedo ugualmente.”
“ Vai, pure, ti ascolto.”
D. “Tu, sei ritenuto il più grande dei dialettali viventi, a parte il fatto che scrivi anche in italiano, come ti poni di fronte a questa affermazione?”
R. “Come vuoi che mi ponga? Anzitutto la grandezza di un uomo non la stabiliscono mai i contemporanei e, forse, non si può sancirla. Magari qualifichiamo «grande» quello che è semplicemente un uomo. Voglio dire che siamo così abituati alla mediocrità, che il semplice proporsi di un uomo ci stupisce. Poi, perché usare il termine «dialettale»? Non è un discrimine? La cultura è una. A me piace molto De Sanctis, che imposta la sua Storia della letteratura italiana comprendendo scrittori, scienziati, poeti, filosofi, tutti coloro che scrivono. Forse che la poesia ha bisogno di questi distinguo? E Dante non era un «dialettale»?
Quando si stabiliscono tali distinzioni, non si finisce più di discutere. Proprio voi, in Sicilia, non discutete su cosa e come considerare «siciliano»? Koinè? Localismo? Ecc… La poesia non è che poesia in qualsiasi lingua sia detta e, come vedi, uso un termine che si riferisce al parlare e non allo scrivere, proprio perché i suoni e il ritmo ineriscono all’individualità orale. Lo scrivere è già una traduzione.”
D. “Quale molla è scattata in te, e dallo studio della filosofia, ti ha portato alla poesia?”
R. “Il mio intento era la ricerca della verità. Quando ero bambino, tra i nove e i dieci anni, scrivevo racconti, facevo sceneggiature di romanzi, che poi, noi bambini recitavamo nei cortili, indossando costumi ritagliati nella carta, dalle bambine. Leggevo molto, fumetti, romanzi, fiabe. Solo molto più avanti, dopo i vent’anni – se si eccettua la mia lettura di Marx a diciotto anni – ho cominciato ad occuparmi di teatro e di filosofia.
Forse ha contato molto anche la mia precoce partecipazione a quella vicenda sociale – la guerra, l’antifascismo, la rivendicazione operaia – che noi chiamavamo «impegno politico». Volevo capire e far capire. Ero indignato dall’ingiustizia sociale, come scrive Vittorini, «per il mondo offeso». Ero preso anch’io da «astratti furori» e dalla ricerca della verità. Così, dopo Marx, Mozart e Leopardi dei miei 16-18 anni, venne lo studio sistematico della filosofia. Intanto scrivevo racconti e tentativi di romanzo.
Come si fa a dire «cosa è scattato in me?» Forse non è scattato niente. In realtà non ho mai smesso di scrivere e di studiare e, nello stesso tempo, di «partecipare».
Nel 1963, Virginio Puecher ed alcuni attori del Piccolo Teatro mi proposero di scrivere una satira politica che avrebbe dovuto andare in scena durante l’estate. Ma io, che intanto avevo vissuta tutta la delusione del primo crollo dell’ideologia marxista – ero uscito dal PCI nel 1954 – proposi una satira anticomunista. Lavorammo a quel testo teatrale dal settembre ’63 al giugno del ’64. Cito questo episodio perché fu la prima volta che scrissi dei testi teatrali anche in milanese. Naturalmente Op là bandiera rossa! non andò in scena, né allora, né mai. Ci fu il veto di Grassi, più tardi quello di Dario Fo e, infine, in modo molto più chiaro e onesto, di Franco Parenti – che mi disse di essere condizionato dalle sovvenzioni dei partiti Socialista e Comunista.
Così, l’anno dopo, 1965, mi capitò tra le mani l’edizione Vigolo dei Sonetti del Belli. Tra un filosofo e l’altro, la lettura di quelle poesie mi colpì molto. Trovavo, finalmente, un poeta che “partecipava” alla vita di un popolo. Avevo letto qualcosa di Carlo Porta, ma soltanto più tardi, sono penetrato nella sua poesia. Sono stato indotto a provarci anch’io, ma fu davvero il Belli o fu il cambiamento che, intanto, era avvenuto in me? Tanto è vero che incominciai a scrivere in italiano. Scrivevo e stracciavo. Mi accorgevo di scrivere con la testa e con la memoria dei poeti che avevo letto; secondo quel che intendevo dire, riconoscevo Leopardi, Pascoli, D’Annunzio.
Come ho già detto varie volte, volendo parlare di personaggi operai e vittime della guerra, pensai che non avrei potuto farlo in italiano, che dovevo usare la loro lingua e così, per una seconda volta indotto dalla materia di cui volevo trattare, volli scrivere in milanese. Fu così che scopersi di avere il milanese dentro di me, più di quanto pensassi e, per la prima volta, scopersi la poesia. Non scrivevo più secondo quanto la mia consapevolezza dettava, ma, se così posso dire, mi lasciavo scrivere, era tutto me stesso che partecipava all’evento – corpo, anima, memoria conscia e inconscia – e, proprio come dice Dante, «dettava dentro» e in una lingua che non era la mia usuale.”
D. “Mentre scrivi, pensi a chi ti leggerà, cerchi di individuarne il punto debole?”
R. “Quando scrivo, non penso. È difficile far comprendere – come tutte le cose di cui non si è fatta esperienza – cosa è avvenuto in me negli straordinari momenti in cui ho scritto poesia.
Dice Leopardi, nella lettera alla sorella Paolina: «In tutto questo tempo ho cincischiato con le parole… Finalmente mi ha ripreso l’allegrezza dello scrivere poesia».
Si tratta di un evento in cui siamo coinvolti pienamente, non di un discorrere o un chiacchierare e nemmeno di un far letteratura. D’altra parte mi leggerà chi avrà la mia stessa passione per la verità e la stessa spinta a conoscere sé stesso. Non conosco abbastanza con precisione neppure i miei «punti deboli», figurati se posso individuarli negli altri! Non mi preoccupo né degli altri, né di altro.”
D. “Quali letture sono state illuminanti perché nascesse il poeta Franco Loi e quali accadimenti di vita?”
R. “Chi può dire cosa conti nella nostra vita? A volte può essere un accadimento insignificante a riportarci a noi stessi, a volte un dolore, a volte una gioia. E c’è un criterio con cui valutare ciò che conta e ciò che non conta?
Infine, poeti si è, non si diventa. I bambini, sino a tre-quattro anni, sono quasi tutti poeti. Forse si tratta di rientrare in noi stessi, forse non sono state le letture, nemmeno quella del Belli in sé; forse è un modo di essere di cui ti accorgi, forse hanno contato di più i giornalini e i libri che ho letto tra i quattro e i dieci anni – ho cominciato a leggere a quattro anni, forse Socrate ha contato più di Dostoevskij e forse Bach più di Vivaldi e di Rossini. Certo è contato il modo con cui sono entrato in rapporto con le persone e le cose e l’attenzione a me stesso e agli altri. Quando avevo 21 anni, ho conosciuto uno scrittore e poeta, Giulio Trasanna, che mi portava, insieme ad altri ragazzi, nei caffè e nelle osterie e mi diceva: «Prova a guardare la gente… e poi dimmi, di ognuno, che età pensi che abbia, che professione fa, cosa esprime la sua faccia…» Poi ho scoperto che la stessa cosa faceva Flaubert con i suoi giovani amici. Quanto ha contato questo? Certo ci sono stati accadimenti straordinari. Ho vissuto la guerra, i bombardamenti, ho visto fucilare, ho visto gli uomini buttati sui marciapiedi, come sacchi insanguinati, ho vissuto il dopoguerra, la ricostruzione della città di Milano, ho partecipato ai cortei, alle lotte operaie, ai moti del 1948, a quelli del ’68, sono stato persino in prigione, a Venezia, per accuse politiche, ho conosciuto uomini di qualità: Ungaretti, Vittorini, Sereni, Fortini, Davide Turoldo, Lorenzo Milani, ho partecipato a discussioni e battaglie politiche, ne sono uscito sempre sconfitto. Non posso dire che la mia vita sia stata senza eventi e tutti mi hanno segnato o hanno influito, ma non è stato, piuttosto, che il mio modo di partecipare a questi fatti e a questi rapporti, sia stato influenzato dall’essere un certo tipo di uomo e, forse, un poeta?”
D. “Che peso ha ed ha avuto, nella tua poetica il ruolo di figlio, padre, marito, nonno e da cosa è stata provocata la tua sterzata verso una ben delineata forma di religiosità?”
R. “Beh, questa è una domanda da romanzo. Intanto bisogna distinguere due domande in una: quella sul peso dei rapporti umani, familiari e non e l’altra, sulla religiosità.
Mio padre aveva fatto la quinta tecnica. Rimasto orfano ad otto anni, della madre e ad undici del padre, fu allevato da un fratello, a Genova, e mia madre, orfana di padre a diciotto anni, aveva fatto solo le tre elementari.
Mio padre ha fatto il marinaio, il disegnatore meccanico, lo spedizioniere e poi è stato assunto, come direttore dello Scalo Merci di Milano Smistamento, da una ditta di appalti ferroviari. Mio padre non l’ho mai visto con un libro in mano e, però, era un intenditore di musica lirica, mentre mia madre, oltre ad amare anche lei la musica lirica, leggeva di tutto, dai libri della Delly a Delitto e Castigo.
Da piccolo io leggevo i libretti d’opera e ascoltavo musica. Può anche darsi che questa educazione musicale abbia influito su di me, ma non gli darei un valore decisivo. Certo, tutto può aver contato. Come ho detto in un’altra risposta, la vita di un uomo, fin dagli inizi, è un’incessante scoperta e non si può distinguere tra un evento, anche insignificante e un altro a cui la nostra mente può dare più importanza. Così è anche per la moglie, i figli ecc. Facciamo parte di un tutto e tutto penetra in noi e ci condiziona. La libertà consiste, appunto, nel non lasciarsi condizionare totalmente.
In quanto alla religiosità, sia mio padre che mia madre non andavano mai in chiesa e, però, mi hanno sottoposto a tutti i riti cattolici. Sono stato persino cresimato dal Cardinal Schuster.
Credo, comunque, che una imprecisata religiosità sia sempre stata in me.
Religio, dalla cui radice si può risalire ad una lex che, insieme ha significato di legge, di leggere e legare, mettere insieme, raccogliere. A me piace quel “mettere insieme” e “legare”, che vale, sia per le persone, che per le cose, insomma un’unità cosmica di cui la parola di Dio è un misterioso agente.
Così le lezioni di catechismo hanno fatto crescere in me quello stupore del mio rapporto con ogni cosa e ogni persona, che, fin da piccolissimo, mi facevano stare incantato ad ogni evento della natura, il muoversi di un ragno, il dondolare di un fiocco di neve o il pulviscolare della luce dai vetri di una finestra.
Certo, poi, la mia religiosità si è andata sempre più affinando nella mente, ma, sostanzialmente, non si è mai allontanata molto da quello stupore davanti al mistero del vivere.
Per me la parola «Dio» è un’emanazione del silenzio in cui sono avvolte le cose e, nello stesso tempo, forse per abitudine infantile, non posso fare a meno di rivolgermi a quel silenzio, come fosse una persona. Certo, come ho scritto in una poesia: «Dio non è un pensiero, non è un’idea, ma un filo di spada che ti attraversa il cuore» e ancora in un’altra poesia: «Più lo penso e più gli sono lontano».”
D. “Ami la vita?, quanto, come e perché?”
R. “Certo che amo la vita. Come si possono separare amore e vita? Si respira, si sta attenti, si è vivi. Un mio amico diceva: «L’amore è movimento» e cos’è la vita? È proprio il movimento verso le cose, gli altri, sé stessi e non è questa la natura stessa dell’amore? Dall’attenzione a questo movimento, nasce la poesia. Proprio come dice Dante, ascoltare la vita e dire quel che il nostro essere vive. Non con la mente, ma esprimere col corpo e con lo spirito, quel che esce da noi, per effetto stesso dell’amore vivente. Dice Raimon Pannikar: «Se la parola non dice solo ciò che prima è pensato, se non va solo a rimorchio del pensiero, ma dice ciò che l’Essere è e, dicendolo, lo manifesta, allora poniamo le basi realmente al regno della libertà». Questo è, appunto, ciò che fa la poesia e tutte le arti. Non è il versificare, ma «fare», poiein, come non è imbrattare tele o emettere rumori – suoni.”
D. “Sei un caotico, pieno di fogli, appunti, frasi, segnati dove capita o lavori metodicamente?”
R. “Scrivo dove e quando mi capita. Ma non sono caotico. Come dice Shakespeare, nell’Amleto: «C’è del metodo nella sua pazzia.»
Non ci sono regole nel fare arte, se non quella del lasciarsi dire. Certo che occorrono cultura, preparazione, mestiere. C’è stato un periodo in cui mi sono divertito a imbrattare coi colori, ma, per esempio, intendevo mettere un verde-foglia e invece ne veniva fuori un verdaccio inqualificabile, sognavo di dipingere la trasparenza d’un cielo e, invece, ne usciva un blu opaco e pesante.
Ma, per tornare alla tua domanda, a volte scrivevo anche per 14 ore, girando per casa, recitando e memorizzando quanto usciva da me, a volte scrivevo sul tram o per strada, appunto su foglietti o nei miei quaderni, a volte ascoltavo la gente nei posti di lavoro, nelle osterie, negli ospedali ecc… Spesso la gente diceva cose straordinarie senza nemmeno accorgersene. Persino i suoni erano perfetti.”
D. “Le espressioni «forti» che, spesso usi nelle tue poesie, le usi anche nella vita o nascono mentre metti in versi le tue sensazioni?”
R. “Cosa intendi per «espressioni forti»? In poesia non ci sono distinzioni fra le parole.
Il popolo ha sempre distinto le parole soltanto dal tono con cui vengono pronunciate. Tanto è vero che, spesso, una stessa parola ha significati diversi secondo il tono. Se io dico fica o figa, invece di vulva, questo può offendere le orecchie di qualcuno, ma è una semplice questione di mos o costume. In poesia conta soltanto ciò che voglio esprimere con quel suono. Quando eravamo bambini si faceva un gioco che non so se i bambini d’oggi conoscono: si ripeteva una parola, per esempio pane, fino a quando si perdeva la significazione e rimaneva il suono.
Il poeta non perde di vista il significato, ma lo assume come suono o insieme di suoni. Ne nasce uno scorrere ritmico e musicale, tuttavia significante, che chiamiamo «verso».
Certo che, in società, non uso fica o figa, userò un eufemismo, dettato dai costumi, per non offendere nessuno, ma questo è dovuto al savoir faire d’obbligo in ogni società, non perché la parola in sé sia «forte» o offensiva per un qualsiasi pudore. Tanto è vero che, nell’intimità, credo siano pochi ad osservare le regole del galateo. Ma questo fa parte di una certa ipocrisia sociale, non ha fondamento nella parola.”
D. “Per chi attribuisce un qualche peso all’astrologia: tu sei dell’Acquario, segno improntato ad un fortissimo senso della propria libertà e autonomia. Quanto ritrovi di te in questa’immagine?”
R. “Beh, spero che tu non voglia parlare dell’astrologia dei giornali e della televisione. Anche Dante usa spesso nei suoi versi l’Astrologia, antica scienza che studiava l’influsso degli astri sulla natura umana. Cominciamo col dire che non soltanto l’essere nato nel mese dell’Acquario impronta un carattere; ci sono gli ascendenti, l’influsso della luna, degli altri pianeti ecc. ecc. Quasi sempre occorre anche la perspicacia o la chiaroveggenza di chi pratica la lettura di un tema natale. D’altra parte, chi non si picca di avere «un alto senso della libertà e di sentirsi autonomo»?
Una visione cosmologica non può prescindere dall’Astrologia nell’indagare sulla natura umana, ma si tenga presente quella bella osservazione di Einstein, a proposito della scienza: «Non si perviene alle leggi universali per via di logica (…), ma per intuizione (…) e l’intuizione è possibile nel rapporto simpatetico con l’esperienza». Che differenza c’è con la dichiarazione poetica di Dante: «I, mi son un che quando/ Amor mi spira, noto e a quel modo/ ch’ei ditta dentro vo significando». È ancora l’amore a muovere l’intuizione.
Perciò non bisogna mai concedere all’opinione di massa né sulla scienza, né sull’astrologia, né sulla poesia o altro…
Siccome io non so chi sono e, però, ho tante e diverse opinioni di me stesso, non mi limito a quell’impronta astrale. Come ho già ripetuto mille volte, sono uno che cerca.”
D. “Le donne, madre, moglie, figlia, nipote sorella, la figura femminile in genere, quanto incide nel tuo essere uomo e poeta? Come ti poni nei loro confronti?
È l’altra faccia di una precedente domanda.”
R. “Questa è una domanda alla quale non so rispondere. D’altra parte sarebbe come chiedere: quanto influisce il sole o la luna o la natura tutta?
Quando avevo quattro anni, una bambina della mia stessa età, figlia di amici dei miei genitori, mi prese per mano, mi condusse nella sua brandina, nel sottoscala di una casa nei carugi e mi disse: «Tuccame chie…», toccami qui a e portò la mia manina sul suo sesso. Poi mi strinse fra le sue braccine. Cosa provai? Una gioia, ma non perché toccavo il suo sesso o ero abbracciato da una donna, semplicemente mi piaceva essere amato.
E, siccome mia madre non era mai stata particolarmente effusiva, forse la mia gioia era pari a quella che avrei provato dal suo abbraccio. Penso che la gioia venisse dall’amore; sicuramente non aveva niente a che fare col sesso. Nell’infanzia ho avuto questo tipo di incontri con molte bambine. Forse qualcuna di loro era più maliziosa di me, ma io lo prendevo come un gioco – infatti qualcuna mi ha fatto giocare “al dottore”, qualche altra mi ha regalato dei bacini, qualcuna mi ha semplicemente invitato a giocare a palla o ad altri giochi.
Fu, sicuramente, molto più avanti – avevo 14 o 15 anni – che gli amici più grandi mi insegnarono a masturbarmi e mi parlarono del sesso con le ragazze.
Tu hai l’abitudine di fare domande impossibili. Cercherò di separare i diversi aspetti.
Di quella che ora è mia moglie, mi innamorai follemente quando avevo 21 anni e lei, a differenza delle bambine della mia infanzia, mi ha fatto molto penare. Soltanto sei anni dopo, acconsentì al fidanzamento. Ora sono 52 anni che siamo insieme. Penso che, quanto ad influsso sulla mia vita, sia sufficiente!
Veniamo ora alle donne. Quante ne ho amate e ne amo! Questo, però, non vuol dire necessariamente, che ci sia andato a letto.
Ho imparato da bambino ad amarle. Come ho scritto in una poesia: «mi piace toccarle, parlare con loro, vedere i loro occhi che brillano, quel dolce dormire fra le loro braccia». Tutto mi piace di loro e, certo, anche «farci l’amore». Ma questo è un aspetto secondario del mio amore per loro.
Certo ho scritto anche poesie, da loro ispirato, c’è persino un poema: Teater, che tratta dell’amore per una donna, ma ho scritto anche poesie per i miei figli e una per mia figlia Maddalena. Ho scritto fiabe che le mie due figlie Francesca e Maddalena, hanno illustrato con i loro disegni.”
D. “La sessualità quanto conta e ha contato nella tua vita e che incidenza ha avuto nella tua poesia?”
R. “Chiedere della sessualità ad un uomo che ha quasi 80 anni, è quasi una crudeltà. Scherzo. Beh, non bisogna mai scindere l’uomo. Tutto l’uomo, intero, sesso e cuore e mente e… altro, formano quello che noi chiamiamo persona. Perciò anche la sessualità ha una sua funzione energetica nel moto poetico. La sessualità non è generativa?”
D. “Poesia in dialetto, poesia in italiano, in quale ti senti più Franco Loi e perché?”
R. “Io scrivo poesia in lingua milanese. Ha un significato? Scrivo in Italiano soltanto prosa, narrativa, teatro, critica. Dove sono più Io?
Certo, in milanese avviene il miracolo: non è più il mio ego o la mia consapevolezza o la mia mente, ma sono tutte queste cose assieme e, forse, anche ciò che non so individuare di me che sudano le parole. Forse si può dire: «Io più Dio.»
Sicuramente la gioia che mi è esplosa durante il «fare» poetico è quella che cerco ancora oggi e penso mi esprima di più.”
D. “Cosa pensi della poesia in dialetto dei nostri giorni e chi, se puoi dirlo, ritieni sia
in grado di lasciare una traccia significativa, nel tempo?”
R. “Cosa vuoi che pensi? Come ho già detto e ripeto, anche Dante ha scritto in dialetto, fiorentino e non solo, se pensi alle tante parole lombarde e venete del suo poema. Tuttavia posso aggiungere che il periodo tra il ’60 e l’80 è stato particolarmente favorevole alla scrittura dialettale, se penso a Raffaello Baldini, Franca Grisoni, Tolmino Baldassari, Nino Pedretti, Tonino Guerra, Albino Pierro, Franco Scataglini, Bianca Dorato, Santo Calì, Amedeo Giacomini, Mauro Marè, Achille Serrao, Sergio Atzeni, Benvenuto Lobina e tanti, tanti altri… Tutti poeti di grande qualità, che soltanto la miopia e l’ipocrisia politica della discriminante italiota non sa prendere in degna considerazione.
Non mi piace porre ulteriori separazioni e non mi piace dare voti. Basta leggere la bella antologia in tre ponderosi volumi che Franco Brevini ha preparato per i Meridiani, per rendersi conto di quanto tutti questi poeti, in modo diverso, abbiano contribuito a dare un’immagine del loro tempo.”
D. “Cosa pensi dei premi letterari?”
R. “Dei premi letterari non posso che apprezzare lo sforzo di molti emeriti uomini di lettere per segnalare nomi e testi di qualità. Però si sa che un premio è spesso determinato dalle amicizie dei giurati, dal gusto e dalle motivazioni di un’epoca, di scelte politiche ecc. Tanto più il Premio è prestigioso, cioè gode di stampa e notorietà, tanto più tutti gli elementi citati incidono sulle scelte. In genere, una buona giuria fa un buon Premio; ma il Nobel, per esempio, ha spesso premiato più per scelta politica, che per scelta letteraria.
In quanto ai «dialettali», è mai stato preso in considerazione Carlo Porta, Gioacchino Belli o Delio Tessa? Non credo che la giuria del Nobel sappia chi sia Raffaello Baldini. D’altra parte è stato premiato Montale e non Ungaretti.
La Sicilia è terra di grandi poeti e di grandi scrittori. Basti ricordare Antonio Veneziano, Giovanni Meli, Domenico Tempio, Vann’Antò, Nino Martoglio e poi Pirandello, Verga e i più recenti Buttitta, Santo Calì, Giovanni Battaglia, Nino De Vita.
Le questioni del dialetto sono così dappertutto, non solo in Sicilia. Se poi anche i poeti in lingua regionale si mettono a discutere tra loro su koinè e localismo, come sul piano nazionale si discrimina tra poeti in lingua e poeti in dialetto, ne nascono equivoci e distorsioni dannose.”
D. “Il termine «cultura», cosa significa per te?, come intendi, tu, la cultura?”
R. “Passiamo, ora, all’altra domanda sulla cultura. La cultura non è, forse, una? Viene da colere, coltivare, venerare. Ci sarebbe, semmai da discutere sull’abitudine – purtroppo anche scolastica – d’intendere la cultura come erudizione, come somma di saperi e sarebbe più attinente dire: «somma di libri ingurgitati».
Levi Strauss, in uno dei suoi libri, mi pare Il pensiero selvaggio, parla di un botanico francese, grande erudito e ottimo studioso della natura, che va in Africa, in cerca di una pianta, ormai scomparsa in Europa. Il capo tribù lo fa accompagnare da un bambino, che, appena al limite della foresta, comincia a correre, ogni tanto si china e raccoglie qualcosa e il botanico riesce a malapena a tenergli dietro e, quando tornano al villaggio protesta col capo tribù.
Ma il bambino rovescia davanti a lui tutto ciò che aveva raccolto e non c’era soltanto la pianta che cercava, ma tutte le varianti di quella specie, che il botanico neanche conosceva.
La cultura ha, dunque, due aspetti: l’attenzione alla vita – l’ambiente in cui si vive, le cose e le persone con le quali entriamo in rapporto, l’effetto che questi rapporti hanno su di noi, cosa accade in noi mentre viviamo. Quindi colere, coltivare i rapporti che abbiamo con la vita e con noi stessi e venerare, rispettare tutto ciò che ci circonda, esercitare la conoscenza e onorare il mistero di ciò che non conosciamo.”
D.“Il prossimo anno, compirai ottant’anni, una tappa anagrafica importante. Se fosse possibile, cosa diresti al Franco di vent’anni, a quello di quaranta o a quello di sessanta? Sono anni indicativi, potrei dire quindici, trenta, cinquanta o settanta.”
R. “Non saprei cosa dire. Intanto, come accade anche ai figli, bisognerebbe capire se sarei stato in grado di ascoltare. La vita si impara vivendo. Se si sta attenti.
C’è anche gente che a 80 o 90 anni ne sa forse meno che a 20. Io ho tre figli, ma ognuno è cresciuto come ha voluto. Sì, forse avrei potuto parlare di più con loro, ascoltare di più le loro esigenze, ma la storia e la letteratura dimostrano, spesso, che la natura del figlio è quella che conta di più. Ci sono padri degeneri che hanno figli meravigliosi e padri stupendi che hanno figli mostruosi.
Per esempio, Marco Aurelio cosa è riuscito a fare del figlioccio Commodo? E Seneca, del discepolo Nerone? Il personaggio di Dostoevskij, Netoska Vesvanova, era figlia di un ubriacone e lei era amorosa e moralissima, Re Lear non ha, forse, tre figlie, una diversa dall’altra? E anche il nostro codardo Re Vittorio Emanuele non ha avuto una figlia coraggiosa come Jolanda?
Hanno detto le figlie di Vittorio Sereni: «Nostro padre non era pedagogo con le parole, ma con l’esempio». Ma loro, forse, erano attente e aperte. Sì, certo, ognuno di noi pensa che, con l’esperienza dell’età, si può evitare di fare certi errori o di prendere decisioni più corrette in certe situazioni, ma per quanto mi riguarda, penso che la mia vita non sarebbe stata diversa. Certi difetti li ho ancora adesso, alcuni rapporti li patisco ancora oggi.
Sarei davvero in grado di dare delle svolte alla mia vita? Ho fatto quello che ho potuto,
nelle condizioni in cui mi sono trovato, con il carattere e la coscienza che ho avuto, con i mezzi che avevo a disposizione. Anch’io, alcune volte dico: «Se avessi saputo…» Ma non è detto che quello che ho fatto non mi abbia insegnato qualcosa. Forse sono come sono, proprio anche per come sono vissuto, errori compresi.”
D. “Come hai vissuto e come vivi il cosiddetto «successo»? La riconoscibilità, l’essere, in una parola, «importante»?
R. “Ma tu credi nel «successo»? Non vuol dire «accaduto» o, addirittura, succeduto o morto? I miti del nostro tempo sono: sesso, successo, sia nel senso di fare i soldi che in quello di essere ammirato da molti. Vedi, c’è, tra i tanti difetti che ho, un’aberrazione che non ho, la vanità e l’invidia.
Certo, dispiace non essere amato. Il desiderio d’amore lo abbiamo tutti. Così come quando si pensa di dire o fare cose utili a tutti, si vorrebbe che tutti ne usufruissero. Ma vale anche qui la regola del libero arbitrio: non posso imporre la mia parola, non posso aspettarmi di essere capito e amato.
Ma cosa vuol dire «successo», al di là di ciò che è stato già detto e mi pare sia più significante? Vuol dire che ne parlano i giornalisti, che compari in TV ecc., ma, più profondamente, che sei apprezzato dal Re o dai potenti, infine, che sei accetto al capobranco.
Nessuno dei grandi del passato ha avuto questo «beneficio». Cristo è stato ucciso, Socrate anche, Dante ha dovuto fuggire, condannato a morte, Campanella è stato incarcerato ecc. ecc.
Se dovessimo fare l’elenco degli scrittori, scienziati, poeti, musicisti che, sotto il capobranco Stalin, hanno pagato con la vita, la prigione o hanno dovuto scappare, dovremmo scrivere un libro.
Un uomo è importante per quanto è o fa o per quanto dice la gente? Uno è eroe perché gli danno una medaglia o perché ha coraggio? Io ho scritto una poesia che comincia: «Oh, quanta gente è morta su una strada/ senza che la storia se ne sia accorta» e, nelle scuole, dico ai ragazzi: «Pensate ai vestiti che mettete, al cibo che mangiate. Li ha fatti qualcuno che non conosciamo. Le cose più essenziali alla nostra vita, le ha fatte qualcuno, con il suo talento, il suo lavoro, la sua umiltà.»
È che viviamo di sogni, siamo così intenti al sonno, che non ci accorgiamo della vita. Fa dire Shakespeare ad un Re: «Forse conviene che pochi veglino e i molti dormano». Se conviene non lo so, ma, di certo, così accade.”
D. “Ti ho fatto stancare, ti ho annoiato, ti ho costretto a smussare qualche spigolo nelle risposte? Hai mai avuto voglia di mandarmi elegantemente, a quel paese?”
R. “No, per niente. Altrimenti non avrei risposto alle domande. In quanto agli spigoli, non me ne sono nemmeno accorto.
Questo genere di dialoghi aiutano anche a riflettere, almeno per quanto mi riguarda. E qui mi fermo.”
È andato tutto bene, il consenso c’è stato, Franco Loi è stato cordiale e disponibile. Bello: lui da una parte, io dall’altra, una forma di intervista anomala.
Mi dice che si è divertito, che le domande non erano ritrite, anzi che, alcune, nessuno gliele aveva mai poste.
Trattengo a stento un moto di orgogliosa commozione… Grande Franco!
E dire che si tratta della mia prima intervista!
Non vorrei che fosse anche l’ultima.
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Flora Restivo, trapanese, poetessa, scrittrice, autrice di prefazioni, recensioni, note critiche, collabora con noti e apprezzati artisti. Sue opere sono presenti, da anni, in antologie e importanti riviste del settore. Ha al suo attivo due sillogi in dialetto siciliano, in corso di pubblicazione una raccolta di racconti e una silloge in lingua italiana. Persona alquanto schiva, ritiene di dover parlare più con ciò che fa, che di ciò che fa.
2 commenti:
Flora Restivo “incontra” Franco Loi. Due esseri umani a tu per tu.
Una lectio magistralis di Poesia e di Vita. Uno superbo omaggio!
Un giorno di festa! Un abbraccio, Marco Scalabrino.
Flora Restivo “incontra” Franco Loi. Due esseri umani a tu per tu.
Una lectio magistralis di Poesia e di Vita. Un superbo omaggio!
Un giorno di festa! Un abbraccio, Marco Scalabrino.
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