Mondadori 2007
recensione di Guido Monti
Poesia metafisica l’ultima raccolta di Franco Loi Voci d’osteria.
Metafisica che viene dalla strada polverosa di ogni giorno dalla quale come un sussulto, un borbottio, si leva la voce polifonica di tanti uomini accartocciata, dimessa o dismessa, a volte disfatta.
Dicevo poesia metafisica perché registra letteralmente “l’oltre” di queste voci dalla matrice terrosa sanguigna, verso l’interrogativo ultimo dell’esistere.
Si badi interrogativo quasi mai diretto ma sempre sotteso e parlante nel complesso nodo della vita che può manifestarsi sotto forme diverse, come per esempio nello scorno delle relazioni famigliari, «Io alla mia donna, voglio un sacco di bene. / È il suo carattere che è di gran puttana… / … una volta l’ho strozzata con le mie mani, / e un’altra l’ho abbrancata per un piede / e fuor dalle finestre d’un quinto piano / l’ho fatta penzolare come un bambolotto… /» o nel sesso, travestito a volte da sentimento, che viene come gesto d’impulso e oscuro e che traversa ogni uomo santo o meno.
«Io il mistero dell’amore non l’ho mai capito… / … ne bacio una e voglio bene a un’altra… / nello stringere e fingere mi prende una specie di dolore, / una puttana di pensieri, un cane che sbava, / la voglia di scappare, una troia di tormento… /… e quando non ci sono le donne, tira la rapa / nel letto e ti si spezza il sentimento… / tu va a capire l’enigma che è l’uomo! / …»
E questo stesso farsi e dirsi esperienziale, che macera e parla nei corpi, è la domanda di tutte queste voci «L’ho vista nuda, mi ha tirato l’uccello. / Adesso è lì morta, e l’aria sembra giocare / sul corpo di lei, tra quelle lenzuola e le mani, / e io ci cerco tra quel muovere dell’aria, / con la voglia di niente, il mio sognare.»
La terra quindi come luogo ontologicamente interrogativo e dove intanto il buio s’espande sul fare degli uomini incapaci di ritrovarsi.
Quasi che sotto gli occhi del lettore, passassero in filigrana poesie tutte con una invisibile domanda: esistere forse per nulla? perché esistere?
«Si vede la luce nel nascere, ma poi ci perdiamo / ché nella vita non troviamo più la luce… / dentro nel marcio, nel fondo del buio noi nuotiamo, / come i pesci morti, gli stronzi, le cose da buttare…»
Loi registra il battito sincopato nervoso di queste voci, la temperatura interna del loro dire, che quasi come un rantolo si spande nella melma, nel sottosuolo di ogni giorno, s’espande per darsi una più totalizzante esclamazione, l’esclamazione che canta la canzone urlata e aggrovigliata e non sentita dalla società contemporanea.
«Se parlo da solo quando cammino, / non è che sono coglione o imbalordito, / ho qualcosa da dirvi e nessuno altro / mi viene incontro per ascoltare lo sfogo…»
Quel “nessuno”, è lo stampo della società d’oggi, nessun ascoltatore che abbia la misura dell’ascolto.
Il poeta poi nel registrare questo dialogo convulso, collettivo, è come se prendesse nota anche del tono malandato, direi disperato della sua stessa voce testimone di questo tempo muto.
«Milano si consuma nel triossido / e tra queste case che paiono morte agli uomini, / c’è solo il vento a muovere i panni che pallidi / stanno alla corda come i rami ai pomi / che aspettano la pertica che li tiri giù /… / soltanto me nessuno chiama giù. /…»
Società avanzata, che per paradosso ha fatto scendere i suoi uomini sotto terra, realizzando così quello spazio infernale e irredimibile figurato dall’arte: «Si va tra le pubblicità e i bottoni degli uomini / fra il buio degli occhi nel ventre del metro / che sono come il segno di quel che accadrà: / figli delle terra sotto l’acqua del respirare… / Ah quanta notte, … / come si disgrega il mondo nel suo imbestiarsi! /… guardano gli uomini il vuoto che hanno tra le facce… /Ah nero metro, caverna della storia! / Si va senza sapere chi tornerà.»
Collettività tecnologicamente evoluta, nella falsa riga però della fabbrica centenaria, che dettava e detta tutt’ora col suo tempo meccanico, un ritmo agli uomini, una cadenza di sottrazione della vita, dei suoi bioritmi.
«… la fabbrica prima ti mangia e poi ti caga, /… / ti ruba il tempo, ti ruba la coscienza, / il fiato ti ruba, e l’aria, il sentimento… /… /Ma le fabbriche le abbiamo addosso, fin dentro casa, / fin nel letto….tra te e tua moglie…»
È dolente in Loi questa istantanea nitida mai offuscata del vivere d’oggi, questo immiserimento umano senza riscatto «… e quelli che nascono oggi non hanno speranza… / … siamo figli d’un povero Milano pieno di boria, / con la coscienza sporca e la pazienza / di lavorare, chiavare farsi verdi come ramarri… / Ma su, non abbiate paura! Con tanta sapienza / non siamo nemmeno capaci di pisciare, e il nostro essere / si scioglie in un soffio d’aria, in meno di niente… / e il nostro sapere si fa carta ci cesso.»
E questa continua frenesia, col fiato corto, senza direzione senza riflessione addirittura di corsa sino alla bara: «Donne che hanno fretta, uomini che lavorano, / gente che corre e non sa mai dove andare… / Il prima e il dopo, amici, non si può mai dirlo / ché noi balordi siamo dentro il lampo del vivere / e il troppo darsi da fare è figlio dell’ignoranza, / una corsa alla bara nell’affanno del morire.»
E questo aprire il petto dell’uomo figlio delle mai sepolte “magnifiche sorti e progressive”, questo suo gonfiarsi furioso che lo porta ad essere il misuratore del perimetro umano.
Dice ancora Loi: «Se l’uomo misura il mondo, chi misura / il modo di misurare dell’uomo e la misura? /… ché noi nel misurare falsiamo il metro / ché ci piace comunque farci belli nel giudicare… / E allora lasciamo fare ai grandi sarti / ché anche dio ha sempre tanto da fare…»
E forse l’uomo non solo non può misurare ma non può essere misurato per il suo stato di precarietà e finitezza dentro la vita terrena «“Carletto, vieni qua… vieni qua che ti misuro…”/ “misurare cosa, eh? … misurare cosa?”/ “Ti misuro l’ombra della cassa… /che tanto nel corpo non c’è niente da…”»
E ancora i figli dei figli di questo sbigottito andare senza direzione, che assume il verso a volte di una violenza occulta: «Ci sono giovani che tu vedi già morti… / adesso ti vengono addosso anche in metro… / loro, i padroni del tram, la razza nera, / che fanno soldi con gli occhi e ti derubano / perfino l’anima nel tuo letto da sera..»
Violenza dicevo e facile guadagno, facile divertimento, in cui il senso del sacrificio si occulta nel lampo del godere dell’attimo: «Te la ricordi, Gino, la fatica / i giorni del carneval per trovare un centesimo? / Oggi è uno spasso anche a essere mocciosi. / Ma guardali lì, questi stronzi, han tanta figa /… / Non c’è più religione! troppa abbondanza e confusione! /...»
Questa lacerazione, frantumazione dell’orizzonte umano si fa poi più evidente proprio quando il poeta per contrasto, gli sovrappone nitide diapositive di paesaggi marini, «Nel gioco io vorrei come un ciuffolotto / perdermi nell’aria, essere foglia nel volare, /farmi grandi risate e andare nell’acqua nudo / e l’onda è ancora aria nel nuotare / e non siamo più noi, ma corre l’acqua nel vento / e l’aria si fa noi nel suo fiatare», o di luoghi anche cittadini ma traversati per un attimo di natura come la pioggia che informa di lentezza fluviale i viali d’una Milano altra: «Come piove! Come fresca la città nel piovere! / quel verde del camion, l’ombrello che cammina, / la luce del tram che scivola a stento / e io che sogno il fumo d’un amore lontano / … e c’è la luna e tanti uccelli nel cielo, / e un piovere che nel pensiero vien su dal mare,/ un’onda che torna e che lascia il fiele / d’una Milano che dorme senza gente.»
Assistiamo qui ad una parola che si quieta, si distende si fa preghiera naturale.
A volte invece è capovolta nei toni interlocutori ed ironici verso un loro impersonale: «Come ce l’hanno imbrattata, Dio, questa nostra vita, / quando sarebbe così bello guardare nevicare / e guardar piovere… / e correre le strade e con gli amici pisciare…»
Il poeta è queste voci che si fanno protesta drammatica nel loro dire di bestemmia, «Che vita sciatta! tra le rondini che si beccano /… Ah madre avara, / che mi hai messo al mondo senza pensarci!» o è la voce essenziale del panettiere che dalla saggezza d’un mestiere antico dice “… / ... noi siamo poeti… piccoli e forestieri… / senza padre né madre... siamo brutta gente… /ai quali il giorno è come la notte nel buco del prestinaio... /…» nasce insomma da tutte queste presenze del mondo e nel mondo e poi ne fa summa nella sua pagina per un dire unico e insieme molteplice.
Franco Loi credo ci suggerisca di percorrere la strada del vissuto, quella più fonda, degli uomini drammaticamente inascoltati perché ultimi di una catena, occorre insomma per intenderla questa vita rigirarla da sotto perché «non basta infilare belle parole, / occorre segnarle con l’olio, e, sacramento, / con l’unghia della vita, e con le noci amare / che abbiamo cagato fuori dal sangue del sentimento.»
Gli spunti di riflessione esistenziale si intrecciano, si parlano e Loi da esploratore di quella sottilissima dimensione che terrena svola verso qualcosa d’altro, dà forma a questi interrogativi, li accende come quando ci parla in una poesia, del sonno umano visto nella sua dimensione doppia di riposo ma anche di abbandono e perdita di quel senso razionale che ci fa essere coscienti alla vita «… / gli occhi chiusi, un peso d’ombra scura / appena sopra il naso, un dimenticarsi la vita… / sta li quieto, poi arriva all’improvviso / e tu senza accorgertene ci sei già dentro… /… non c’è nemmeno il tempo di dire e di sorridere, / già l’aria la respiriamo senza più vedere.»
Questo respirare senza più vedere, è lo stato di pre-morte, è la visione anticipata di quell’esserci finale d’ognuno.
Il tratto poi che imprime nelle poesie finali del libro all’uomo-padre-vecchio è quello di un corpo traversato e consunto dalla vita, dai suoi colpi ed è come se in fondo, nel fondo di quella esistenza, fosse passato senza traccia con la mente fissa a un pensiero o a qualcosa...
«C’è un giornale tra le mani bianche di mio padre / e lui sorride come nel pensarsi… /… e gli occhi guardano qualcosa nel passare del tempo… /… sta lì nel vuoto, è lì come nel ventre / d’un suo soffiare dell’aria e dimenticanze… /… un fiato nella pazienza di aspettare, / una vita che sembra spersa nella mente.
L’uomo-padre visto poi nell’ultimo momento dopo la morte, assume una sembianza in-figurabile come in-figurabile si prefigura la possibilità oramai svanita di capire la dimensione paterna nel farsi della sua storia sociale ed individuale: «Gli occhi sono sciocchi nell’aria dietro la morte, / la mano di palta su un lenzuolo tutto bianco / mio padre guarda il sole come fosse notte… /… Dov’è? cos’è? mio padre? Cosa se n’è andato? /cosa rimarrà di lui nel venire del verde /… sono qui a guardare uno sconosciuto fatto niente / e adagio si perde del padre la mia eterna / fatica di capire l’aria il suo tempo.»
Quell’ “adagio” è terribile piolo che batte e s’incunea nel vero delle relazioni umane destinate a disunirsi, come lentamente, nel chiaro volere-destino umano.
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