martedì 26 agosto 2008

Su Vorrei imprimere un vuoto nell’aria di Carlo Penati


recensione di Narda Fattori

Il prefatore ha colto con sobrietà e precisione il carattere della poesia del Penati e soprattutto della sua incapacità di aggrapparsi alla concretezze delle cose, delle emozioni, delle opinioni, alla ferita che pure lo attraversa e qua e là vediamo sanguinare.
Ho colto una contraddizione fra il titolo … un vuoto nell’aria e l’ultima stazione, intitolata “Il tutto”; il vuoto nell’aria, la sua leggerezza, la sua permeabilità forte si contrappone alla pesantezza del mondo, ai suoi dolori sempre prossimi, alla condizione dell’uomo che ogni volta riprende il viaggio, fra ascesa e abisso senza trovare un quieto fermarsi.
Siamo fatti per l’oltranza, afferma il Penati, ma è qua che si gioca le sue carte e la sua mano non porta vittoria e quale vittoria poi, su chi e per quale motivo?
Di certo sappiamo di uno stupore che ci prende dinnanzi alla bellezza, sia di donna che di natura, ma pure sappiamo di morti e carneficine, di ingiustizie, di mani fraterne insanguinate. Nella stazione “L'abisso” c’è un discreto campionario delle nostre bassezze: «vino / lasciato fermo nei mosti / attesa che intoni carmi / nel rombo denso delle guerre / rabbia / senza maestri a cui appigliare / lo scorrere uguale dei pensieri / acido addio all’acerbo stelo / di una vita solo all’inizio» (p. 35).
Vorremmo Penati più ardito, fuor di metafora osare il dicibile e l’indicibile, che l’acerbo stelo è probabilmente un bambino cui è stata sottratta l’infanzia.
Apprezziamo il Penati che non si nasconde nella vaghezza delle ombre e delle nebbie; lo preferiamo quando afferma che non vediamo « il vuoto che pasce / la filosofia vana / di certo novecento» (p. 15). Ma perché dire “pasce”, termine desueto e non “nutre”, ben più vicino alla sua poesia che vorrebbe essere disadorna e invece si trastulla con certo poetese che ormai si è svuotato di senso a forza di riempire libri di versi?
La poesia che apre il libro e avvia il viaggio ha una potente valenza semantica che si dilapida nei due versi centrali che nulla aggiungono all’ingombro in quello finale che avremmo voluto aspro come ne percepiamo l’intento.
Seppure ogni stazione/stanza inizia con un volo, abbiamo l’impressione che non ci siamo spostati di un millimetro, perché la nostra vita è hic et nunc, l’altrove è speranza inarresa.
E nell’ora presente e passata, nella nostra vita, nella vita di tutti ci sono venti ed eventi, incontri e attese, amori e disamori, illusioni e disillusioni.
Il nostro dire si fa vero e trova la sua voce quando si appiglia alla verità della ragione, dei sensi, dell’emozione e della speranza.

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