Biagio Accardo, Esercizi di riparazione, peQuod 2024, collana Portosepolto, volume a cura di Massimiliano Bardotti
recensione di AR
Nella Nota dell’autore a p. 98 troviamo queste parole: “La raccolta rappresenta un modo di esprimere la mia gratitudine nei confronti di tutte le persone il cui amore ha consentito che io fossi ciò che sono, nella convinzione però di non essere mai riuscito a rispondere adeguatamente a quel dono. È anche la dichiarazione di fede nella poesia, che è sempre parola che risana, che ripara, ma anche dichiarazione di fede nel mondo, nelle cose, nella loro irriducibilità alla parola (…)”
L’ultima poesia del libro (p. 97), scritta in corsivo, è rivolta a un “… te che non ami essere detto. Ma tu / sei ciò che esonda il segno, / (…) / … Inutile seguirti, / restare fedele alla tua traccia / sul terreno: tu vai dove vuoi, / torni quando vuoi, e c'è canto / se ci sei, silenzio se ci abbandoni.”
A p. 96 Biagio confessa: “… A volte ti scopri di stare / sulle spalle del buon Dio / e vedi le cose come lui le vede, / non corrose dal tarlo del tempo. / Chissà perché, poi scivoliamo / da quelle spalle, e da sotto, / dall‘angolo in cui siamo finiti, / il disegno ci sfugge, la prospettiva si stringe, / (…)”; e a p. 86: ”Ancora viviamo con l’idea di un Dio / da cercare, da trovare come si trovano le patate / (…) / Il meglio di lui lo dicono i poeti: lo annunciano / e non lo sanno. Per questo la loro parola / gli somiglia: non nasce da alcun desiderio, / è solo il frammento, un frammento caduto della sua eternità.”
Il verso che intitola questa recensione è tratto dalla poesia a p. (87): “Dare il nome è rubare la magia al buon Dio, / fare uscire dal buio, chiamare fuori / da sepolcri di pietra. Chi diede un nome // mischiò materia e anima, le chiamò / a stare insieme per l’eternità. …”
Risaliamo le pagine di questa vibrante raccolta: ”È proprio così il vero giusto: / il vero non si deduce, / irrompe, là dove mai nessuno se lo aspetta.” (p. 77); “Non fare tramontare il mondo / su parole che sanno solo di te, su pensieri / così definitivi da non lasciare / spazio a nessuna contraddizione.” (p. 75); “Se in una poesia non s’intrufola / qualcosa del nostro povero mondo, / che ne sarà di lui, del mondo dico, / del mondo che si è fidato di noi / e c’è venuto dietro come un cane mansueto?” (p. 69); “Scegli per sorella la povertà / (…) / che terge il cuore / e assottiglia lo spessore / tra tempo ed eternità.” (p. 57).
Sono poesie di ricucitura degli affetti, dei ricordi, delle cose, dei sentimenti… questi intensi Esercizi di riparazione. Accardo ci squaderna il grumo essenziale e intimo del suo stare al mondo con un dettato esatto, preciso, netto che ha la forza assoluta di un lascito testamentario. La lingua scoperchia il suo sentire con una capacità visionaria affascinante: ci troviamo catapultati nei luoghi suoi ventosi (“sono da sempre un esule / e un vento dorme nelle mie vuote stanze.” p. 34), ci sembra di toccare con mano gli oggetti descritti (“Chiedo perdono alle cose che ho chiamato / a riempire il vuoto della mia pagina.” p. 25), di aver accanto le persone invocate, di provare noi stessi i sussulti che il poeta con il suo sobrio ma inesorabile canto ci descrive. È un libro stupendo, definitivo: ci trasporta sulla soglia dell’oltre e ci scuote, con amore. Sì perché sottotraccia ci invita a una evangelica vigilanza per cogliere i bagliori di senso disseminati lungo il percorso di vita di ogni persona. Bisogna prestare attenzione, svuotarsi a poco a poco di un io che ha paura del vuoto e lo riempie di idoli che hanno la solidità della sabbia.
Propongo ancora qualche lacerto: “… cos’è / la vita se non regge nemmeno il ricordo, / e le strade, persino quelle sbagliate, / quelle sconsigliate, sono già tutte cancellate, / tanto che anche perdersi resta un sogno, / e si resta fermi qui, su questa soglia d’orme, / dove si va da ogni parte / e non si è mai da nessuna parte.” (p. 43);
Biagio dice alla/della poesia (p. 51): ”… sussurra, chiama, non gridare; / distingue se puoi, non giudicare; / (…) / sii per tutti come la giusta maglia, / né di misura stretta, né di più larga taglia.”; “… la vera poesia se viene, se ce la fa a nascere, / non dovrebbe tradire quello che il gesto / la scia nella carne, e si dovrebbe scrivere / con una penna il cui inchiostro è prossimo al sangue.” (p. 39). E nella poesia di esergo (p. 13) si chiede: “Ma che erano i versi / prima che fossero? Un rossore / forse, lo sbiancare del viso, la trepidazione – / qualcosa insomma / tra le righe … / (…) / Ma la verità è così: bisogna / andarsela a cercare, / anche se ci costringe al fuori pista.”
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