Alcuni anni or sono Vincenzo Mastropirro era solito proporre sulla sua pagina Facebook alcuni simpaticissimi siparietti che lo vedevano protagonista, nel ruolo di figlio, insieme con la mamma Ninetta, in dialoghi, a volte al limite del surreale, in cui si scontravano, o comunque mostravano una certa frizione, l’adesione ai tempi contemporanei del figlio, ad una concezione della vita moderna, e il disagio, a volte la disapprovazione, della mamma, ancora legata a una visione antica della vita, fatta di saggezza popolare, di buon senso, di ancoraggio alla tradizione, di strettissimo legame col dialetto, sua unica modalità di espressione.
Una sottile e affettuosa ironia circolava negli episodi raccontati, e comunque una rappresentazione della mamma circondata sempre da una cornice di devozione filiale. Ricordo, e ne sono sempre molto ammirato, una poesia di Vincenzo in cui chiarisce il rapporto con la lingua materna, che è la prima lingua con cui è venuto in contatto, e che porta avvitata nella testa come un perno:
me disse: “la poesia dialettale non la sopporto,
se scrivi in dialetto sei destinato al nulla.
Ei so nudde e nudde vogghije ièsse
ma la poèsèi è tutte e nudde
inde a totte re lingue du munne
e piure cu la maije, chère de Riuve
ma spècialmède chère de mamme
ca stè inde alla cope, avvetòte
cume ‘nu pirne affunne ed etièrne.
[mi disse: “la poesia dialettale non la sopporto, /se scrivi in dialetto sei destinato al nulla.”// Io sono niente e niente voglio essere/ma la poesia è tutto e niente/in tutte le lingue del mondo/e pure con la mia, quella di Ruvo/ ma specialmente quella di mamma/che sta in testa, avvitata/come un perno profondo ed eterno.]
In seguito, come è inevitabile, la mamma di Vincenzo è morta, ma quei dialoghi non si sono mai interrotti, hanno perso qualcosa sul versante giocoso, ironico, ma hanno acquistato consapevolezza e una devozione ancora più forte, hanno evidenziato quel legame fortissimo che unisce un figlio a sua madre. E hanno dato vita a una nuova raccolta di poesie, pubblicata da Fara Editore col titolo “Se mi conosci…”. La caratteristica di questa raccolta è che alcune poesie sono nel dialetto di Ruvo, nella lingua materna ascoltata e imparata da bambino, alcune sono in italiano, e alcune sono miste, accanto all’italiano compare sempre il dialetto.
Come scrive acutamente Angela De Leo nella nota critica che accompagna e chiude il libro: «Sì, Vincenzo ha sentito che ora l’omaggio più bello che potesse fare a sua madre “esile e stanca” rispetto alla donna forte e coraggiosa, battagliera e volitiva con cui era solito battibeccare in “duetti dispettosi” d’amore, era un ricamo di note tenerissime, quasi ad accoglierla nel nido delle sue braccia per aiutarla a volare via, in un sommesso suono di flauto dolce, suo strumento musicale preferito e amato da tenera età.»
La raccolta è in buona parte legata alla figura materna, ma vi trovano adeguato spazio gli affetti familiari: la moglie (“questa è tutta la nostra storia d’amore, dentro una frase scritta sul biglietto del treno”), la figlia (“sono padre di una roccia”), il figlio (“Suonai per te tutta la mia musica / e urlai al mondo la tua bellezza”), il padre (“giro attorno a un tavolo / mi insegue mio padre”). Scrive infatti l’autore nella Introduzione: “Riflessioni a cielo aperto che principalmente appartengono alla relazione madre-figlio, ma anche a tutti gli altri legami che la vita ha avuto il compito di tessere e intrecciare durante la mia esistenza”.
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