sabato 4 novembre 2023

“hai imparato / che oramai non ci sono più / senza te.”

Paolo Pistoletti, Al di qua di noi, Arcipelago itaca Edizioni 2023

recensione di AR


Trovo questa raccolta intrisa di una latente, benché dissimulata, sensualità (quella caratteristica dell’adolescenza col suo prorompente ardore immaginifico). Avendo una formazione da linguista, apprezzo molto i giochi, i tranelli, le sorprese, i vicoli ciechi, che Paolo dissemina con sagacia in queste pagine (apprezzamento condiviso anche da Fabio Franzin nella bellissima prefazione), la capacità dell’umbro di farci viaggiare con lui in un tempo “sfasato” dove il passato si insinua nel presente e viceversa, dove l’io e il tu si confondono in un intreccio inestricabile, in un amplesso che non si disgiunge in un noi ma ricorda l’immagine del dao in cui yin e yang transitano continuamene l’uno nell’altro in una unità dinamica inscindibile che è appunto “al di qua di noi”. Tornando per un momento alla capacità di forgiare una lingua al contempo precisa e riverberante di sensi e di “fughe”, di corsi e ricorsi, consideriamo questo brano tratto dall’ultima poesia della raccolta (p. 121): “Dentro una carrozza lungo la ferrovia / da lì riemerso / dal mio maglione fatto a mano / mentre guardavo / il cielo era più di una volta celeste / che mi guardavo / riflesso sul finestrino”. Oltre al guardare che è anche un guardare il proprio guardare riflesso dal finestrino del treno, una sorta di mise en abyme che il lettore potrà trovare altrove e in diverse modalità in quest’opera, abbiamo ad esempio la parola “volta” che è triplicemente ambigua: può far riferimento al numero (due volte, tre volte…), al firmamento (volta celeste), al tempo (più di un tempo). Questa è certo una espressione della potenza polisemica inesauribile della poesia, ma il Nostro ne fa un uso particolarmente affascinante e suggestivo. Così la sintassi viene “elasticizzata” e un verbo come risalire, nella stessa poesia, ci vede oggetto anziché soggetto dell’azione: “… Ci risaliva / il colore dei boschi. Come da sotto al mondo” (ivi).

A p. 113 troviamo: “Noi stiamo all’inverno come i monti / alla neve. Gli appennini per noi sono / catene che non ci sciolgono”.

A p. 103: “Io che parli / da solo. / Vuoi il mio viso, vuoi la mia cartografia, / vuoi quanto sguardo. Dal di qua / del corpo / quante vite finite / alle spalle ci toccheranno dimmi / prima di bastare.”

A p. 99: “È la fine di quell’anno e come tutti i ragazzi / i nostri corpi sono ancora confusi. / Tanto che io – ma poi io chi? – / non so di preciso dove sono / da quale parte / di noi finivo. Verso dove / trasecolava la nostra / mia generazione / da quale angolo del paese / si estendeva più su.” 

A p. 87: “… Chissà se esiste davvero / il nostro posto / ci chiedevamo come / da altre vite.”

A p. 69: “Stasera con me in cabina / porto dentro il silensio / il tuo nome / slacciato dalla cellula del mio / telefono qui dove / non c’è campo / immerso / in un plasma freddo poiché / il tuo è lontano.”

A p. 54: “noi bambini giocavamo fino in fonddo / ai nostri corpi / come le ombre degli uccelli.”

A p. 48: “Quando è toccato a te / hai riportato tutti i colori al loro posto. / Dove eri stato in quelli più vivi / adesso sei il bosco anche quando piove. …”

A p. 32: “mi accingo / a essermi come un corpo in equilibrio / in una terra di mezzo.”

A p. 26: “Mi succedo / dal mio sé.”

A p. 27: “… Così un altro io / che sarò stato / si sottrae al mio nome.”

Già i pochi esempi qui sopra ci danno un assaggio della tecnica affabulatoria, depistante, ricorsiva, ricchissima di metafore struggenti e di accostamenti lessicali insoliti di Paolo che riesce sapientemente a piegare, invertire, distorcere i ruoli sintattici così da spiazzare in definitiva il tempo e da “curvare” le categorie sintattiche creando una geometria dei sentimenti e del pensiero che definiscono fluttuando, rendono vivi e ricordi e disciolgono il presente. 

Come osserva Fabio Franzin (p. 7): “Quando un poeta, con un’ardita invenzione linguistica, ci pone di fronte a un enigma, apre il nostro pensiero e lo fa lavorare, perché è sempre nel dubbio che esploriamo nuove vie.”  

Non posso che sottoscrivere le parole di Fabio e mi permetto di autocitarmi concludendo con Agenda, una poesia di due versi che credo possano applicarsi ad Al di qua di noi: “Ci sono momenti / che spostano date.” (da In cerca)  


PS I versi posti a titolo di questa recensione sono tratti dalla poesia a p. 28.

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