mercoledì 22 marzo 2023

Fenomenologia della "poesia facile". Dalla neolingua alla neopoesia

 



Fenomenologia della "poesia facile"

 

Dalla neolingua alla neopoesia

 

Ho assistito recentemente a una innovativa e coraggiosa trasposizione teatrale del famoso romanzo "1984" di George Orwell, già immortalato nella memorabile riduzione per il cinema del regista Michael Radford: inevitabilmente uno dei temi nevralgici ripresi anche dalla pièce è stato quello riguardante la cosiddetta neolingua inventata dall'autore di fantascienza britannico per descrivere il lento ma inesorabile processo di semplificazione del linguaggio, attuato dal partito del Grande Fratello, quale premessa per una decostruzione del pensiero critico nei confronti dell'ideologia dominante. Un'ideologia di regime bisognosa di pedine acritiche e non di uomini e donne pensanti. Eliminare quanti più termini è possibile dal vocabolario corrente per impedire sul nascere l'elaborazione di sillogismi e quindi di critiche in grado di mettere in difficoltà la presa diretta del dittatore sulle menti dei cittadini. La semplificazione del linguaggio per realizzare un più efficace controllo del pensiero della popolazione non è purtroppo solo un'invenzione di Orwell ma è stata nel corso della Storia anche una pratica ampiamente applicata; alcuni esempi attualizzabili: gli slogan propagandistici, le frasi a effetto per stupire l'elettore e parlare alla sua pancia, gli annunci lapidari non verificabili riguardanti opere pubbliche che non verranno mai realizzate...

È di questi giorni l'uscita nelle librerie dell'ennesimo best seller di un noto "poeta televisivo" che non fa mistero del proprio successo editoriale attribuendolo principalmente alle sue doti comunicative dirette, sincere, geo-onnipresenti, limpide, intorno a tematiche basilari, primitive, "domestiche" e a un suo stile poetico che potremmo definire "facile", semplificato, consolatorio, medicamentoso come la panacea delle nonne realizzata con ingredienti casalinghi, non complessi, alla portata di tutti. A ogni pubblicazione di questo autore ne consegue un putiferio mediatico alimentato da critici indignati, da autori che non credono nell'autenticità letteraria di certi successi editoriali pompati dal marketing... A essere messa sotto accusa, ogni volta, è una non poesia che viene spacciata per Poesia e che misteriosamente (poi mica tanto misteriosamente, per motivi che diremo dopo!) riesce a raggiungere molti più lettori di quanto non faccia la "poesia vera", quella riconosciuta dai manuali di metrica e dalla storia ufficiale della letteratura; quella degli autori che sgobbano su un verso per giorni e giorni, a volte per anni, (mentre il nostro, a dire degli invidiosi — anzi, lo dice lui stesso! —, le sue poesiole le concepirebbe in ascensore, in una sala d'attesa d'ospedale o in viaggio sul treno tra un reading pubblico, una soppressata da affettare e una lectio magistralis via Skype).

Il "poeta televisivo" si è inventato un mestiere con cui dice di voler guarire i mali di un'Italia interna desertica e abbandonata, un po' come faceva Giovanni il Battista, l'ultimo profeta dell'Antico Testamento, quando nel deserto predicava l'urgenza di una conversione prima dell'arrivo del Messia; si è inventato un folto pubblico fedelissimo pronto a farsi battezzare dalla sua parola di fuoco (o forse è il pubblico che ha inventato lui?) e che lo ha fatto diventare, secondo alcuni immeritatamente, benestante e famoso. Si è inventato un modo di fare poesia che asseconda — dal punto di vista "poetico" — i dettami di quella neolingua orwelliana con cui abbiamo esordito in questo articolo: semplificare il linguaggio poetico, anzi ignorarlo poetando a braccio; lasciare ai pignoli frustrati l'irrisolta diatriba tra poesia prosastica e prosa poetica; sintetizzare concetti complessi in immagini semplici, elementari (sempre i maligni dicono: "da scuole elementari"), primordiali, che parlano alla pelle prima ancora che al cervello; adottare l'accapismo quale regola ufficiale di una neopoetica accettata dalle masse impazienti, nevrotiche e troppo indaffarate per scervellarsi dietro i versi astrusi di poeti onanisti, falliti, inascoltati e quindi invenduti.

Ma tutte le poesie semplici sono anche facili? La storia letteraria della poesia contemporanea ci dice di no: che dietro i versi apparentemente lineari di alcuni poeti e poetesse ritenuti universalmente grandi, si nascondono abissi di complessità interiore, labirinti esistenziali non subito rilevabili... Ma si tratta di rarità: la maggior parte delle poesie semplici rimangono tali anche dopo un'attenta analisi perché oltre che semplici stilisticamente sono anche concettualmente banali.


Anni fa circolavano delle micro-pubblicazioni di "narrativa da metropolitana": si trattava di raccontini di poche pagine distribuiti nelle metropolitane — molti di noi li hanno anche collezionati — e classificati in base al numero di fermate che occorreva impiegare per terminarli. C'era il "racconto da due fermate", quindi brevissimo; c'era quello da quattro o cinque fermate, già un po' più impegnativo; c'era quello che durava l'intera tratta fino al capolinea, quindi quasi al limite del racconto lungo. Quella del nostro "poeta televisivo", secondo alcuni critici, sarebbe una poetica da metropolitana talmente semplice e predigerita, da permettere all'uomo qualunque di masticare facilmente temi universali e fondamentali quali il sacro, la morte, l'amore, senza che questo si distragga mentre l'altoparlante della metro gracchia in continuazione: "Prossima fermata: Cinecittà... Uscita lato destro!". È una non poesia ulteriormente semplificata e a prova di distrazione. Una non poesia che arriva subito, che consola, guarisce, coccola, soccorre; che unguenta l'animo ferito delle donne, che unge la fronte e le mani dei moribondi con l'olio santo dell'ovvietà, che agevola i processi riparativi dello spirito offeso, che spiega il sacro — quello elementare, quotidiano — alle "menti protozoarie" e distratte di questa società allo sbando e senza più punti di riferimento.

Una domanda, però, mi perseguita: se la neolingua orwelliana era prodromica a una semplificazione del pensiero (e quindi al suo controllo) per fini politici e ideologici, la neopoesia del "poeta televisivo" a quali processi sociologici predisporrebbe? In fin dei conti politica e poesia parlano entrambe all'umanità: la prima lo fa pubblicamente, la seconda dovrebbe farlo in privato. Sono due rami derivanti dallo stesso tronco comunicativo: la semplificazione di questi due linguaggi nasce dall'esigenza generalizzata di raggiungere senza troppi sforzi il controllo di un consenso popolare (socio-politico o sentimental-poetico poco importa!) per fini elettorali o editoriali. "È la poetica di Twitter, bellezza!".

I due tipi di semplificazioni sono sintomatici di un'unica situazione culturale generalizzata in cui l'obiettivo emotivo ha definitivamente prevalso sulla forma. Il "verso libero" è stato frainteso: le poche regole sottintese che lo tenevano in piedi nel mondo dei grandi, sono state tradite dalle urgenze comunicative del "poeta televisivo" a cui scappa l'aforisma poetico suggerito dall'ipocondria, il pensierino albeggiante dettato dall'insonnia, il culto di sé e dei propri malesseri, la puntuale prosetta sentimentale e fintamente profonda sul fatto di guerra o sull'ennesima tragedia del mare... È un'instant poetry di successo, che ha presa sui cuori di chi ha bisogno di essere confortato subito, non domani, non dopo studi approfonditi sul significato dei versi letti. Anche il "poeta televisivo" asciuga il testo, lo semplifica, lo snellisce ulteriormente per penetrare — come un agile slogan — ancor più velocemente nella mente di chi, per pigrizia, resiste alla sua lettura; lascia fuori dalla pubblicazione pagine di testo che poi ricicla sui social. Asciugare il testo, compiere feroci auto-editing, sono le prime virtù di uno scrittore: l'importante è non semplificare per convincere più facilmente, per diventare a tutti i costi prodotto democratico, popolare, "piacione".

Ma perché prendersela con il "poeta televisivo" per questa sua scelta stilistica vincente e che non fa nient'altro che cavalcare coerentemente una situazione già in fieri da decenni? Perché criticare l'offerta furba se è la domanda del pubblico a essere debole? Perché criticare certi autori se sono le case editrici per prime — per motivi economici e facendo pressione affinché la scuderia di parolieri sforni robetta con cadenza semestrale — a veicolare le loro "opere facili" cavalcando la richiesta impreparata e bisognosa di semplificazione di un pubblico che non ha letto nient'altro che la neopoesia del "poeta televisivo"? Perché incolpare gli autori dei programmi televisivi del nostro vergognoso palinsesto generalista in prima serata, se sono i telespettatori seduti sul divano, con il loro influente ditino sul telecomando, a determinare lo share e quindi a compiere una precisa richiesta qualitativa riguardante anche i futuri programmi? E sento già voci, dal fondo della stanza, tirare in ballo le responsabilità educative e propositive della scuola, dell'università, della famiglia, della Chiesa... Degli alieni.

La ricerca, da parte del lettore, di qualcosa di superiore nasce dal confronto, anzi dai confronti che dovrebbero essere continuativi, innumerevoli, complessi, eterogenei, esigenti. Quando non esiste una consapevolezza derivante dal confronto, qualsiasi spacciatore di "bugiardini da metropolitana" può diventare medico e farmacista delle anime sofferenti dei lettori.


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Michele Nigro, nato nel 1971 in provincia di Napoli, vive a Battipaglia (Sa) dal 1978. Si diletta nella scrittura di racconti, poesie, brevi saggi, articoli per giornali e riviste. Ha diretto la rivista letteraria “Nugae – scritti autografi” fino al 2009. Ha partecipato in passato a numerosi concorsi letterari ed è presente con suoi scritti in antologie e periodici. Nel 2016 è uscita la sua prima raccolta poetica – che ama definire “raccolta di formazione” – intitolata “Nessuno nasce pulito” (edizioni nugae 2.0). Ha pubblicato “Esperimenti”, raccolta di racconti; il mini-saggio “La bistecca di Matrix”; nel 2013 la prima edizione del racconto lungo “Call Center”, nel 2018 la seconda edizione “Call Center – reloaded” e la raccolta “Poesie minori. Pensieri minimi”. Nel 2019, per i tipi delle Edizioni Kolibris, viene pubblicata la raccolta di poesie intitolata “Pomeriggi perduti” (collana di poesia italiana contemporanea “Chiara”), che è anche il nome del suo blog. È del 2020 il volume 2 della raccolta “Poesie minori. Pensieri minimi”; nel 2021 la terza e ultima silloge dei materiali di risulta. Alcune sue poesie sono state tradotte in portoghese, inglese e spagnolo.  


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