mercoledì 9 novembre 2022

Tre fili d'attesa di Maria Pina Ciancio

 

Una recensione di William Stabile


Le pagine del libricino "Tre fili d’attesa" di Maria Pina Ciancio, condensano le riflessioni maturate in anni di osservazione lenta, attenta a costruire un percorso intimo e personale, volutamente decantato nel tempo dalla poetessa.

Tutto è fermo, freddo, come di pietra, e non c’è nulla da vendere, nulla da comprare, non ci sono traffici né merci… Solo tre fili d’attesa (a bona sciorta/ nu’ lavoro ca cunta/ u capattiempo che vene sempre chiù luntano) e “dopo la guerra dell’inverno (…) anelli di fumo irregolare” e scorci di paese e personaggi reali - amati profondamente nell’animo - e intorno la dura terra lucana dove ha valore essere più che avere.

Spiccano tra i muri sbrecciati di paese, le tante immagini dei vecchi dalla schiena stanca appoggiata al muro delle case, le ringhiere scorticate, i gerani smarriti al grande cielo e i cani a tre zampe o impazziti-quasi animali mitici, e gli attori paesani un po' strambi, come zio Pietro (con il legno del bastone sotto il mento) che per strapparla allo scherno pittò “la casa di rosso, di lato, di sopra, di sotto” e che si fanno amare per la loro diversità, innata semplicità e riottosità al giudizio comune.

'Attesa' sembra essere la parola chiave del libro, cardine intorno al quale ruota la vita del paese lucano, terra ancora primitiva, ferma a riti arcaici, che si forgia nel dipanarsi delle storie minime e tragiche della sua gente. L’attesa sembra essere ora l’unico atto rivoluzionario nel mondo frenetico di oggi. Dove appunto l’attesa, e la riflessione che richiede lo scorrere lento del tempo, sono bandite.

Con l’attesa anche il silenzio è elemento presente nel libro. L’assenza di rumore ("non fanno rumore i paesi d’inverno") nei lunghi ovattati inverni lucani viene rotta solo dai "rutti" delle feste comandate. Forse a ricordarci la presenza insignificante, rozza e primitiva dell’essere furente che è l’uomo nella Natura.

Ma anche qui, in questo embrione materno che è il villaggio dove si cerca rifugio e conforto, “ci sono notti difficili da dormire…” come per tutti gli uomini sulla terra, come anche per gli animali. Anche qui in questo luogo irreale che conserva un senso arcadico della vita, l’uomo è in bilico e la speranza si aggrappa al fato: “a la bona sciorta” e cede alle pressioni familiari, sociali: perché “nu’ lavoro che cunta” è importante. Mi sembra che ci sia il sapore di un sottile senso di colpa in questo verso, forse irrisolto, che viene da secoli di arretratezza e da una non soddisfatta volontà di riscatto della gente del Sud. Chi decise che per contare bisognava emigrare?

La nostra si fa testimone silenziosa dei contrasti inconciliabili tra generazioni troppo diverse che non si incontrano più e epoche oramai distanti trovano voce nel verso: “padre e figlio si incontrano a cena/ intorno al tavolino/uno mastica lento, l’altro va di fretta/ per non inciampare in quel tempo dilatato/ e fermo degli occhi di sua padre…”

Ma l’ispirazione parte tutta dal camminare per dare origine alla parola poetica e intuire la realtà. La Ciancio sa bene che “Talvolta basta uscire per strada/ per riannodare gli orli/ sfilacciati di un pensiero”. Camminare, un atto anche questo oggi sovversivo, è raccontare sé stessi agli altri. E la nostra, con i suoi versi e le sue foto (che andrebbero valorizzate!) sembra conoscere molto bene il segreto del camminare, scrivere e fotografare. E magari leggere, per ispirarsi, Pavese, primo paesologo italiano (ancor prima di Franco Arminio). Uno del Nord.

E allora Tre Fili d’attesa è un libriccino dalle leggere pennellate di versi da tempo attesi, ispirati e dedicati dalla Ciancio alla sua regione, la Lucania, terra appenninica ma anche mediterranea calata tra duri calanchi e costa greca. Una regione dell’anima fatta di paesi che esistono e re-sistono, fuori dalle rotte turistiche… fuori dalle dinamiche della globalizzazione. La Lucania che compone questa nostra Italia antica e variegata e che custodisce ancora, come un’isola, inconsapevolmente, i tasselli del DNA nostro e l’animo della poetessa stessa.

A corredo dell’opera, una stampa dell’artista Stefania Lubatti, ricorda un muro sbrecciato di San Severino Lucano, a voler muovere in noi irrisolte risonanze d’infanzia.

Novembre 2022

William Stabile

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