AIΩN di Mario Fresa
Gianluca D'Andrea
Essere o riessere
Lady M.
Chi
ci indusse a deridere mentre ti sveli bestia
la terra? Forma d’angelo che avviene e che
[s’imbestia,
rendi
normale l’obbrobrio, preghiera la molestia,
spezzando
l’armonia di una natura
che
illusa svia la macchia e la paura.
Un
tuono sbatte e rotola da un angolo di mondo,
remoto
si rannuvola, il presente gira in tondo,
lo
scroscio lo precipita, lo avvolge, lo nasconde
e
ne confonde la misura. Il tempo
allora
ruota, tritura, si rompe.
Mi
portano le lettere, mi spostano ben oltre
il
tempo, gli anni, gli attimi, ne restano le ombre
in
questo viaggio carico di nulla che si offre
e
che conquista. Mostri a me la riva,
la
fine che infinita e ferma, vira.
Dipingesti
per scuotermi un quadro di paura,
tu
che non sei immagine ma l’estranea natura,
l’ombra
orrenda che anticipa e che piano matura.
Niente
è l’amore e la paura è viva,
non
dorme il male, il bene è senza vita.
È
rotondo e desertico il mondo che raggiunge
turbinando
in un vortice questa brughiera. Spinge,
nullifica,
dimentica, fatale mi costringe
a
chiudermi, mutarmi in altro ambiente,
due
volte doppia, accesa, indifferente.
L’età
del ferro è pallida, scolorisce la steppa,
non
allatta il capezzolo, nessun gusto ha la zuppa,
morte
e vita si scambiano, l’intendere s’inceppa.
La
porta un giorno aperta si richiude,
senza
scelta lo spazio include, esclude.
Lo
spazio è un nuovo ordine, delira come un boa
ferito
che vuol vivere. Lo spazio morto è il noa,
il
senza legge lecito di un ritorno che annoia.
Il
desiderio è tana di scorpione,
non
può, non più, né slancio né passione.
I
modi per non essere come sai sono tanti,
alcuni
li dipingono nella mente, davanti
i
pugnali che assalgono, che annunciano tormenti.
Pertanto
sono spettri gli avvoltoi
e
schermi senza sguardo. Tu non puoi
scostare
né respingere la macchia di materia,
perché
non è visibile la gabbia che s’inseria
e
rende il mondo estraneo, ne svela la miseria.
Prigione
è la paura e imbianca adesso
mattine
e notti di un passato spesso.
Vieni,
avanza. Procedere! Perché la vita langue,
torna
al male lodevole, sguscia a tal punto il sangue
e
macchia irrimediabile la sorte, sonno e lingue,
per
questo ciò che è scritto non può essere
riscritto,
non può domani riessere.
Commento.
Una voce aspra, cupa, soffocata - proprio come quella che Verdi
immaginava per la sua Lady Macbeth - che parla, o meglio ansima e sussurra,
torbidamente, nello spazio di un ombroso teatro fantasimale, attraversato da
lugubri sembianze, da echi tremendi, da tormentose premonizioni. Un teatro nel
quale la stessa musica delle frequenti rime assume un’aria ipnotica, maligna,
streghesca, le cui grigie risonanze fanno intendere la presenza di una
dimensione altra e minacciosa, misteriosa e inarginabile.
Poemetto-canto di fosca e inquietante bellezza, questo lavoro di Gianluca
D’Andrea (Messina, 1976), poeta intensissimo e tra i più originali
della sua generazione, è ben capace di mescolare, con sagace tensione, la
turbinosa violenza del grande dramma scespiriano, la scura e serrata energia
dell’omonimo capolavoro verdiano e le estrose invenzioni linguistiche del Macbetto di Giovanni
Testori. Ma l’intera struttura del micropoema si mostra singolare e perturbata,
non solo nella descrizione delle sinistrissime scene, ma anche nell’uso di
verbi rari ed estremi («s’imbestia», «s’inseria») o delle stesse inusitate
strofe pentastiche. Abbiamo già parlato della presenza delle rime (il cui
schema di riferimento, AAABB, è ispirato all'antico modello del Contrasto ciulliano):
anch’esse demòniche e devianti, ora interne (lo nasconde / e ne confonde), ora
assonanzate (viva / vita), ora anagrammatiche (riva / vira); e sempre immerse
nel gioco di un intreccio sonoro dall’andamento oscuramente spiralico, vicino
a una infernale ragna costantemente ingombra di trappole imprevedute e di
paurosi cedimenti, di porte segrete e di specchi deformanti, di false uscite e
di nere caditoie da cui il lettore è sùbito preso, e irretito, e imprigionato,
come se fosse, quasi, calamitato da una sorta di misterica invocazione
spiritica.
Ma pure, la voce-guida del poemetto ci ricorda che è necessario procedere,
andare avanti, in questo dedalo-gorgo, in questa infinita e accidentata tenèbra
che è la nostra lotta con l’esistente: giacché «ciò che è scritto non può essere
/ riscritto, non può domani riessere»: un’affermazione che pare, davvero, un
supremo atto di sconfitta della nostra vanità di lasciare un breve segno del
nostro passaggio; e che diventa, infine, un’immagine vera dell’assoluta
impermanenza del tutto, e del suo stesso illusivo, e infrenabile, apparire e
disparire.
In alto:
Avvicinati di Danka Jaworska (Stoccolma, 1976).