Segato, con questo libro, ha riscontrato una moltitudine di consensi in campo nazionale (premio speciale Casentino 2016, premio Massa, nonché attenzione critica).
Sulla scorta di Giuseppe Carracchia, dunque, vorrei anche io partire da una suggestione da tener presente e riprendere più tardi, questa volta da Montale: “qui dove affonda un morto / viluppo di memorie, / orto non era, ma reliquiario.”
Del Libro di Segato ciò che spicca è il confronto doloroso, a tratti tragico, di due realtà: una quotidianità aurorale, intima, annidata fra i profumi, odori (ma non solo) che la “riportano a galla”, la quale si incastra e
stipa nella negatività presente con cui, inevitabilmente, stride “e le ruote nere avevano fili di paglia / incastrati, portati da chissà dove, / – da una terra tenera, da un tempo che / questa lunga strada esaurisce e cancella.”
Questo confronto, o meglio, questa sovrapposizione, è la scena poetica in cui si diramano le ombre, cifra della maturità di questa raccolta, che increspano e perturbano l’apparente quiete della rievocazione.
Segato non può esorcizzare il presente abbandonandosi a una malinconia confortante e testimonia più di altri (Amadei) lo straniamento dell’individuo. Il poeta è costretto, dunque, a confrontarsi (e confrontare) con quel suo passato particolare annidato negli odori, nel vento (ma non solo) inscritto in un presente in cui talvolta fatica a riconoscersi ed attecchire.
Si addensa così un dialogo narrativo da cui emerge un circolo tematico, sentimentale, esistenziale[1] che si frantuma e rinnova costantemente nel variare di flash di quotidiana visività, i quali rappresentano un paesaggio interiore ed esteriore, presentando così, in questo libro, la sarchiatura del territorio poetico fatta dal tempo.
Questo immaginario diventa, tra le altre cose, sottile scena di una certa miseria umana, la cui denuncia rimane sempre dolorosamente soffusa, ma non per questo meno penetrante “e saluti la gente che non c’è, e ti fermi un momento / a parlarci, a chiedere – come va? / Basta questo pasto di sempre, / quello che cambia è l’ordine / delle sedie attorno al tavolo e accorgersi / che si ha sempre meno fame.”
La suggestione di Montale soccorre, ora, piuttosto bene il nostro discorso. Quando Segato effonde le sue tonalità più sinistre, rivela quel particolare reliquiario ai bordi dei quali egli intona la requie delle relazioni umane. Un canto anche testimone del tempo, del suo trascorrere e dei suoi effetti, delle varie declinazioni che esso può imprimere alle cose: “Ogni spostamento è tragico / ogni trasloco cancella, depone / in altre parti, in scatole grosse / o piccole, le etichette poi si mischiano, / i libri in cucina, i vasi negli armadi / vicino alle giacche sulle grucce, / con le palline di naftalina / nelle tasche assieme a piccoli / pezzi di carta con scritture pallide / di come eravamo.” Una di queste declinazioni è raccontata bene nella poesia Le campane: “non puoi parlare mentre mastichi / ma lo senti il suono delle campane, / le campane che suonano anche per il fiume / anche per i pesci che c’erano in quel fiume, / anche per i vestiti malamente piegati / lasciati sulla riva, incastrata fra i rovi, / come fossero bandiere le canottiere bianche/ le sottane rosse, le scarpe, i sandali, / suona la campana mentre mangi, la tua bocca / non può dire, lo fa la campana, ci spiega la storia / la storia che andavamo al fiume a bagnarci e / vedevamo i pesci nell’acqua come specchio, ora / è la campana lo specchio, ci vediamo dentro / il suo bronzo, se facciamo attenzione, ci vediamo, / vediamo tutta la città e il fiume / e dentro il cucchiaio li vediamo/ e l’inverno senza gelo vediamo/ e vediamo il gelo dell’inverno/ senza la neve.”
Segato ci sa mostrare come il tempo pervenga anche a un graduale erosione della memoria “il tempo fa le sue cose, toglie la vanga, / arrotonda i sassi, smussa il senso d’abbandono, / scolora le foto e inganna la memoria e le rondini / volano sempre più in alto della domenica” finché non giunge la fine “la tovaglia ben piegata / senza crespe né onde / distendila / dritta come dovrebbe essere / una vita che passa e poi, / arrivata al bordo, finisce.”
La dimensione temporale viene accettata e rappresentata nella sua inevitabilità anche dolorosa come quella degli spettri dei defunti, anche essi familiari, che traspaiono nelle crepe a testimonianza di un passato morto, ma da salvaguardare, su cui incombe la vera minaccia annichilente: “quel profumo di terra buona che, ricordi, / ha la terra quando piove un poco, / quando si alza quel vapore che arriva / alle caviglie e ti sembra di camminare / nel nulla, nel niente dove passano e vivono / gli spettri, le persone che non ci sono / le donne che sono andate e anche i ragazzi, / andati in una parte sconosciuta del cosmo, / e questi uomini la stanno chiudendo, questa crepa, / e ridono quando lo fanno, e la chiuderanno.”
Questo Annichilimento è rappresentato anche in una innaturale e meccanica routine cui l’individuo è sottoposto, vittima della sua imperatività che lo strumentalizza, contribuendo, assieme alle altre forze, non solo a straniare l’individuo da sé stesso, ma anche dagli altri: “non sapresti riconoscerti se ti vedessi, / adesso, in piedi, un poco curvo, in quell’angolo / sotto quella finestra.”
Segato tuttavia non ci fornisce una pellicola che rispecchi la mobilità di una geografia transpermanente, ma da essa ne prende le distanze (Accomodati vicino a me) per poterla fermare, frammentarla in flash i quali vogliono essere e sono familiari, consueti e che caratterizzano la sua poesia, la cui cifra visiva, “immobilizzata” dal racconto, non è disgregata dal ritmo costantemente inarcato.
La consuetudine dei frantumi è, dunque, quella sarchiatura a tratti comune del tempo in cui il poeta, in ultima analisi, si riconosce e identifica ritrovando e riscoprendo costantemente la sua radice, anche se a volte dolorosamente.
La consuetudine dei frantumi Fara Editore 2016
Anche disponibile in E-book
[1] L’odore, Il corpo, i luoghi, il tempo – Intervista di Giovanni Fierro


Nessun commento:
Posta un commento