martedì 29 dicembre 2015

Sulla silloge Padre mio come mai te nei sei andato nella luce del Signore? di Enrica Musio

recensione di Vincenzo D'Alessio


in AA.VV. Il tempo del padre, a cura di A. Ramberti, FaraEditore, 2015

L’Italia, la nostra amata terra di memorie, sta riscoprendo la bellezza delle domus disseminate nel perimetro urbano dell’antica Pompei: città mercantile sorta ai piedi di un vulcano che l’ha distrutta, sigillandola nei lapilli, tramandando il fervore dei suoi abitanti alle genti future.
I mosaici compresi in quasi tutte le domus sono tra i reperti più preziosi che gli artisti del passato ci hanno tramandato: le minuscole tessere policrome sono la bellezza dell’Arte tramessa nelle cose, frammenti di un unico disegno che, se tolte dalla loro collocazione originaria, sarebbero degli inutili sassolini anonimi senza più valore.
L’Antologia 
Il tempo del padre può essere considerata la domus poetica dove compare un grande mosaico policromo composto dai contributi offerti dai partecipanti alla kermesse che hanno sviluppato, in versi o in prosa, il tema prefisso dall’editore Ramberti. Molti sono gli spunti e tutti concorrono alla bellezza dell’insieme.

Enrica Musio, romagnola per nascita, ha contribuito con una raccolta poetica che reca il titolo: Padre mio, come mai te ne sei andato nella luce del Signore? (pp. 215-223) e reca come sottotitolo: “In ricordo del caro amico Guido Passini scomparso il 25-3-2015 per fibrosi cistica.”
I versi che compongo la raccolta hanno assunto la vocazione epistolare diretta al padre, scomparso rapidamente a seguito di un arresto cardiaco, che è divenuto la fonte dei ricordi e del dolore che la poeta cerca di illuminare alla luce della Poesia.
L’interrogativo, posto nel titolo, è la base da cui partire per raccontare la vita del suo papà, le radici meridionali, la realizzazione dell’emigrato in Romagna, il servizio prestato nell’Arma dei Carabinieri e, tema fondamentale, i viaggi tra le due regioni e il profumo del mare Adriatico.

“ (…) il cervello nasconde / la tua voce / la conosco bene / mi sembra nostalgia / la lettera che non scriverò.” (La lettera che mai ti scriverò) I versi sono quasi una litote poiché nell’espressione “mai ti scriverò” rivela il contrario, cioè il desiderio della Musio di scrivere realmente, come fa nella presente raccolta, al padre scomparso.


La stimmung generata dai versi è intrisa di intimità: una finestra socchiusa su una famiglia italiana degli anni Sessanta del secolo appena trascorso. La sollecitazione dei ricordi è frutto della perdita improvvisa. Il percorso delle esistenze si snoda in quella che la Nostra definisce “dentro una eterna fugacità” (Padre e figlio).

La modernità della poetica della Musio consiste nel modo semplice di affrontare il dialogo tra memoria, oggetti e tempo. Tornano alla mente i versi di un’altra poeta contemporanea, Giusi Verbaro (scomparsa ad agosto di quest’anno), anche lei salentina come Giuseppe il papà della Nostra, che ha partecipato e vinto nella IX Edizione del Premio Nazionale Biennale di Poesia “Città di Solofra” (1992), che ricorda l’amore verso il padre scomparso troppo in fretta dal dialogo degli affetti: “(…) Fu così poco il tempo per parlare e capirci; / già infilzato al pennone di disposte sequenze / ti disponevi a improvvida partenza / senza neppure il grigio dell’addio.” (Dieci anni).

È stato lo stesso anche per Enrica Musio che avverte questo duro colpo e lo trasmette nei versi della breve raccolta : “(…) Figura di mio padre: / un uomo buono / semplice e onesto / bravo lavoratore / venuto dal Salento / (…) C’è una unica foto / in cui mi tieni in braccio da bambina / poi più nulla” (Pomeriggio di gennaio).


Montoro, dicembre 2015



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