recensione di Marcello Tosi
Poeta di lotta e di passione e critico impegnato, che dalla
sua Irpinia, si sottolineava nella prefazione a Figli: “volge lo sguardo ben oltre il mezzogiorno, anche se ama farvi ritorno
con riferimenti espliciti o sottesi, perché è lì che la sua voce critica
acquista concretezza, sensibilità, acutezza”.
E “passeggero costante del mondo – Anna Ruotolo definisce
D’Alessio nella prefazione a questa Valigia di poesia – che rimane però nel
profondo, meridionale. E il poeta campano è il viaggiatore per antonomasia,
apportatore di una poesia arcaica e nuova insieme, misteriosa, piena di luci e
di colori, ricette mistiche e segreti familiari, radici rivolte al cielo, e
acque e orizzonti scambiati di posto.”
La natia Solofra, Montefusco, Galvanico, e altri luoghi profondamente
incisi dal terremoto del 1980, sono diventati in un lungo arco temporale di
scrittura e di consumata esperienza poetica, segni di contraddizione e punto di
non ritorno per questo scrittore poeta, capace di esprimere, ha scritto EmiliaDente, la poesia, il canto, il dolore. Nel “solco della memoria” di una meditata,
sofferta consapevolezza dell’ineluttabilità di questo “non ritorno”, che è espressa
in maniera ossessiva quasi in ognuna delle poesie della raccolta.
Mestamente cogitando come Carlo Levi nel Cristo, che “il
Sud ha sapori / di ruggine e tradimenti / del poco lavoro della sofferenza”, e altrove
muovendosi attraverso sguardi quasi pavesiani, l’invocato rapporto tra poesia e
poeta si fa eco di memoria tristemente segnata dai luoghi: “quando si ammala
l’aria di settembre /… tra monti
spenti e soleggiati / Sento, nell’aria, il sogno di tornare / accogliendo il
vento del mattino”… e tra “scale di pietra… ancora pietre: / che col tempo
s’ammaleranno di tristezza…” laddove “fumavano le colline / nel sole di mezzo agosto … Solo, nel
peso dell’afa” guardare dal monte “il paese del ritorno”.
Ma il dolore si fa senso profondo di compartecipazione al tormento
dell’uomo e della natura ugualmente vilipesa, battuta, schiacciata dentro cubi
di quel cemento che “ha battuto le stagioni / rombo di auto in corsa…”.
Oltre il verde esiste “qualcosa che attrae i pensieri / la
terra e il sudore degli uomini / oltre le spire del tempo…”, ma si fa strada anche
una decisa consapevolezza che “non ritorno” significhi anche “non amare il
progresso assassino / univoco nel dare benessere/ mentre disegno con lampi
d’ingegno / una siepe e il profumo di lievito”, mentre “è morta la terra da
arare e / mille fabbriche hanno stretto d’assedio / le macchie di aceri e
querce…”.
Il tempo urla dentro l’animo senza pace del poeta, che ormai
anche “gli asini sono morti dolore / la terra abbandonata ai costruttori…Abbiamo
lottato, ci tremano le mani / abbiamo creduto senza pià sperare / hanno ucciso
i padri i santi e / vanno fieri in auto fiammanti…”.
“Mi ha fatto sempre un gran male – dice l’autore - ricevere
l’indifferenza, da parte della gente della Nord della nostra penisola, quando
nei versi raccontavo la fine del mondo contadino, al quale appartavano, sotto
la furia del cemento delle fabbriche: allora unica ricchezza, oggi cattedrali
in disfacimento nel deserto della disoccupazione...”. E aggiunge “La raccolta
che oggi affido la lettore è una valigia di cartone: ridicola, perché desueta,
nelle mani del viaggiatore. Eppure ho ancora una speranza, chiusa in questo
cimelio di viaggio, che il paesaggio incanti ancora il viaggiatore anche
sull’alta velocità”,
Nella seconda parte del volume “prosegue il viaggio” con i
versi dal poemetto “I padri della terra“, e la denuncia diventa anche quella
del peso oppressivo della camorra e mafia: “che chiama compare chi l’aiuta… / Siamo
nani / di fronte al potere oscuro…”. E non rimane che la dolente scelta di
andare via dall’Irpinia / terra benedetta dai politici / servi dei padroni / nel
dolore degli onesti / di notte senza regole…”.
Ma anche di fronte a tanto dolore, un “pensiero meridionale forte
e umano” continua a muoversi alla
ricerca della “libertà sempre negata”, con la voglia di sovvertire mediante la
forza della poesia un’arcaica rassegnazione, quel “male incorporale / che
corrode i giorni e la speranza”, che ora si dilata alle miserie del tempo
presente, divenute le ferite quotidiane dell’ingiustizia, dell’Italia tutta,
dell’Europa, del mondo. Che spinge a domandarsi, nella terza sezione dai versi
de “La solitudine dell’Iceberg”, se esiste ancora, ora che la terra delle
radici, il respiro di madre antica si sono persi un fondo al cuore, ora che anche
le cicale hanno smesso di cantare nelle città sorde e violente, chi si chiede “dove
muore / il passero, un nero d’Africa?”.
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