Marsilio, 2012
recensione di Antonio Fiori
In questo strano tempo in cui i poeti credono, per lo più, di non doversi interrogare o di non poterlo fare senza spaventarsene, in questi anni di scoramento, di affrettate e infauste diagnosi sulla poesia, Margherita Rimi non teme di rimettersi in gioco, di rileggersi con lucida pazienza, di ritrovarsi.
Daniela Marcheschi, nella prefazione a questa curatissima autoantologia, parla di “agile semplicità”, di “verità disarmante”, di un percorso poetico trentennale – un farsi – dall’infanzia all’età adulta.
D’altra parte, nella poesia della Rimi, lo sguardo sull’infanzia è primigenio e ricorrente: da quello affettuoso e malinconico sulla propria a quello amoroso e sofferente sull’infanzia che l’autrice ha incontrato nella sua professione di neuropsichiatra infantile.
Addentrandoci nella lettura, scopriamo che ci sono stati anche per lei momenti di ‘sperdimento’: “Che amore è / quello che ci lasciamo / giornate che si scambiano da sole / per tirare avanti // e credere che piano piano /ce ne andiamo / per tenerci insieme”; che ben conosce le insufficienze e i tranelli del linguaggio – “Che rischia la parola / a questa cura storta, a questo tempo in piena” – ma non sfugge mai la ‘drammatica del foglio’ e non rinuncia a confrontarsi con le ‘parole bianche’. La Rimi compone la propria antologia per zolle tematico-temporali, addivenendo ad un indice suggestivo e in qualche modo ri-fondante l’intera produzione. In questo riassemblaggio trova conferme, rivive incontri reali e incontri culturali, riscopre le impronte lasciate dalla vita sulle parole.
Tra le più significative c’è la sezione ‘Pirandelliana’, costituita da dodici poesie scritte tra il 2002 e il 2010: (Parole) “Ascolto parole. // Non so per cosa / mi raccontano // Per cosa / vengono // Per cosa / se ne vanno”; e ancora: (Di sera, un geranio) “Le sere / hanno una prigione. / ‘Bocca di morte’ che fai la paura. // Niente ci salva. Nessuna parola / ci assomiglia”. Ecco, anche per Margherita Rimi, nessuna parola può somigliarci e ‘niente ci salva’, eppure, a differenza di molti autori contemporanei – che qui si fermano o, pur tentando nuove strade, in qualche modo s’arrendono – la sua poesia resta ancorata alla dicibilità della parola, alla sua capacità di rigenerarsi, ridarci – seppur trasfigurati – il tempo e le persone.
Vorrei infine segnalare l’ultima zolla, ‘Carta nivura’, la sezione dedicata ai suoi incontri con le ruvidità e le dolcezze del dialetto siciliano. L’autrice se ne lascia contaminare, accogliendolo nell’altra lingua: (Conza e Sconza) “Comincio a ricompormi / in tanto movimento / Mi pigghia l’aria / Mi sconza u ventu, fino a raggiungere, in Nuvuli”, l’essenzialità dell’haiku: “Nuvuli vasci / scuetanu u mari.”
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