Sono
formato tascabile le pubblicazioni di poesie inserite nella Collana Sia cosa
che di Fara, di Alessandro Ramberti. Curate nei minimi particolari, dello
stesso formato e tutte con le alette, sono maneggevoli e piacevoli, si possono
portare sempre con sé e possono farti compagnia nei momenti più impensati: sui
pullman, alle fermate dei semafori, all’ombra di un albero ed anche di notte,
quando non si riesce a prender sonno. La Collana, giunta a 93 tirature, nel
mese di agosto si è arricchita di un nuovo volumetto: La valigia del meridionale e altri viaggi di
Vincenzo D’Alessio. Il Nostro, che si interessa da tempo non solo di poesia ma
anche di storia, archeologia, antropologia ed è un attento promulgatore della
cultura, è uscito dai confini dell’Irpinia ed è approdato a Rimini.
La
prima di copertina, avvolta in un verde tenerello, da dove si staglia una
valigia aperta, fornisce già una chiave d’accesso alle sue pagine.
La
valigia è di cartone, la usavano i nostri nonni, quando lasciavano la loro
terra per andare a trovare lavoro in altri luoghi. Di terra e di cielo è colma
la valigia, con ammassi di nuvole, alle quali il poeta affida i suoi esuli
pensieri, di carducciana memoria.
La
raccolta, dedicata a suo figlio Antonio, venuto a mancare nel settembre 2008, comprende
un lungo percorso poetico, che va dal 1975 al 2001; si avvale della prefazione
della giovanissima poetessa Anna Ruotolo, che parla di una partenza senza
staccarsi dalla porta di casa e dell’introduzione dell’autore, che
definisce la poesia: “La stanza illuminata dagli affetti e dai ricordi
nell’anima di ogni essere umano.”
Sono
pieni effettivamente di ricordi dell’infanzia i versi tratti dalla Valigia delMeridionale. D’Alessio ci prende per mano e ci riporta indietro nel tempo, ci
immerge in un paesaggio settembrino, ci fa sentire i profumi, gli umori della
terra arata di fresco, ci fa respirare l’aria incontaminata, ci fa bere l’acqua
che spira dalle caverne, ci fa sollevare lo sguardo verso il cielo aperto, dove
suo nonno faceva vagare i suoi sogni.
Sono
solo ricordi.
Ora
- si rammarica il poeta - è morta la terra da arare e mille fabbriche hanno
stretto d’assedio le macchie di aceri e di querce. E ancora “Dove c’era il
grano, il cemento disegna sagome spaventose, … il catrame uccide l’albero”. Egli
si sente solo, più solo di uno
scoglio in mezzo alle correnti, è solo a sollevare nel vento il richiamo al
falco pellegrino, a chiedere perdono alla memoria ferita.
D’Alessio è il cantore del Sud con una struggente nostalgia per il passato, una
opprimente angoscia per il presente ed un sottile filo di speranza per il
futuro. È il poeta della civiltà contadina, ormai scomparsa. Non ci sono più
gli ultimi padri con le zappe che disegnavano la sera nei solchi.
Come
Rocco Scotellaro e Leonardo Sinisgalli hanno cantato la terra lucana, così Vincenzo
D’Alessio descrive con passione la terra irpina. È il poeta che, in un momento
di rabbia, invita i giovani laureati che sono andati via, a non tornare, a non
cercare in fondo al cuore il respiro di madre antica. In lui vibra forte il
pensiero meridionale, che affida al canto l’ingiustizia, ai versi l’innocenza
della speranza, per illuminare il cielo di domani.
La
sua è una rivendicazione di esistenza e di resistenza.
“Un
treno di neve viaggia nella sua mente, avanza sui binari dei pensieri, stazioni
interminabili le ore, quando il dolore spinge la vita.”
Costellata di dolore è la sua vita, soprattutto in questi ultimi anni, privato della presenza del figlio Antonio, al quale dedica una poesia tenera e densa di affetto; si confessa di essergli mancato come padre, di diventare un bambino nuovo che vuole vivere verità e poesia.
Costellata di dolore è la sua vita, soprattutto in questi ultimi anni, privato della presenza del figlio Antonio, al quale dedica una poesia tenera e densa di affetto; si confessa di essergli mancato come padre, di diventare un bambino nuovo che vuole vivere verità e poesia.
È confortato dall’amore di sua moglie Raffaela, che sa donare l’orgoglio della
serenità; al figlio Pietro Maria rivela il suo animo sofferente e gli chiede di
porgere la mano e stringerla forte.
Nel
viaggio non dimentica i suoi amici, come l’astrofilo Michele Caliano, che fa i
turni di notte, Maria Giovanna Vitale, emigrata al Nord e William Stabile che
ha raggiunto la Bolivia.
Giungendo
a Castelsaraceno, davanti ad un laghetto del monte Alpi, avverte il silenzio
dei Padri della terra e sversa nell’iride sale.
Durante
il viaggio si afferra con coraggio al padre della lingua italiana, al grande
Dante Alighieri, che piega le stelle al suo timone.
La
sua è una poesia onesta, sottesa da una forte passione civile e da uno sguardo
attento alla realtà storica, sociale, politica ed economica. La si può
avvicinare alla poesia di Maria Pina Ciancio, che in Storie minime e unapoesia per Rocco Scotellaro con ritmo sincopato, canta e piange la sua
terra, che ritrae nuda e che considera matrigna.
La
questione meridionale viene
affidata non più alla politica, ma alla poesia, che diventa scudo del tempo e poesia
etica, perché pregna di una dimensione collettiva e sociale.
In
questa nostra società liquida, il Sud ha bisogno di poeti appassionati e
autentici della tempra di D’Alessio, che va al nocciolo delle cose, spronandoci
ad avere consapevolezza della nostra identità, per disegnare, insieme a lui,
con lampi d’ingegno una siepe e il profumo di lievito del pane di Montefusco,
per dissetarci all’acqua che scende dalle nuvole, sorride al sole e spegne il
sudore sul mare.
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