martedì 18 settembre 2012

Su La Valigia del meridionale e altri viaggi di Vincenzo D'Alessio



Sono formato tascabile le pubblicazioni di poesie inserite nella Collana Sia cosa che di Fara, di Alessandro Ramberti. Curate nei minimi particolari, dello stesso formato e tutte con le alette, sono maneggevoli e piacevoli, si possono portare sempre con sé e possono farti compagnia nei momenti più impensati: sui pullman, alle fermate dei semafori, all’ombra di un albero ed anche di notte, quando non si riesce a prender sonno. La Collana, giunta a 93 tirature, nel mese di agosto si è arricchita di un nuovo volumetto: La valigia del meridionale e altri viaggi  di Vincenzo D’Alessio. Il Nostro, che si interessa da tempo non solo di poesia ma anche di storia, archeologia, antropologia ed è un attento promulgatore della cultura, è uscito dai confini dell’Irpinia ed è approdato a Rimini.
La prima di copertina, avvolta in un verde tenerello, da dove si staglia una valigia aperta, fornisce già una chiave d’accesso alle sue pagine. 
La valigia è di cartone, la usavano i nostri nonni, quando lasciavano la loro terra per andare a trovare lavoro in altri luoghi. Di terra e di cielo è colma la valigia, con ammassi di nuvole, alle quali il poeta affida i suoi esuli pensieri, di carducciana memoria.
La raccolta, dedicata a suo figlio Antonio, venuto a mancare nel settembre 2008, comprende un lungo percorso poetico, che va dal 1975 al 2001; si avvale della prefazione della giovanissima poetessa Anna Ruotolo, che parla di una partenza senza staccarsi dalla porta di casa e dell’introduzione dell’autore, che definisce la poesia: “La stanza illuminata dagli affetti e dai ricordi nell’anima di ogni essere umano.”
Sono pieni effettivamente di ricordi dell’infanzia i versi tratti dalla Valigia delMeridionale. D’Alessio ci prende per mano e ci riporta indietro nel tempo, ci immerge in un paesaggio settembrino, ci fa sentire i profumi, gli umori della terra arata di fresco, ci fa respirare l’aria incontaminata, ci fa bere l’acqua che spira dalle caverne, ci fa sollevare lo sguardo verso il cielo aperto, dove suo nonno faceva vagare i suoi sogni.
Sono solo ricordi.
Ora - si rammarica il poeta - è morta la terra da arare e mille fabbriche hanno stretto d’assedio le macchie di aceri e di querce. E ancora “Dove c’era il grano, il cemento disegna sagome spaventose, … il catrame uccide l’albero”. Egli si sente solo, più solo di  uno scoglio in mezzo alle correnti, è solo a sollevare nel vento il richiamo al falco pellegrino, a chiedere perdono alla memoria ferita.
D’Alessio è il cantore del Sud con una struggente nostalgia per il passato, una opprimente angoscia per il presente ed un sottile filo di speranza per il futuro. È il poeta della civiltà contadina, ormai scomparsa. Non ci sono più gli ultimi padri con le zappe che disegnavano la sera nei solchi.
Come Rocco Scotellaro e Leonardo Sinisgalli hanno cantato la terra lucana, così Vincenzo D’Alessio descrive con passione la terra irpina. È il poeta che, in un momento di rabbia, invita i giovani laureati che sono andati via, a non tornare, a non cercare in fondo al cuore il respiro di madre antica. In lui vibra forte il pensiero meridionale, che affida al canto l’ingiustizia, ai versi l’innocenza della speranza, per illuminare il cielo di domani.
La sua è una rivendicazione di esistenza e di resistenza.
“Un treno di neve viaggia nella sua mente, avanza sui binari dei pensieri, stazioni interminabili le ore, quando il dolore spinge la vita.”
Costellata di dolore è la sua vita, soprattutto in questi ultimi anni, privato della presenza del figlio Antonio, al quale dedica una poesia tenera e densa di affetto; si confessa di essergli mancato come padre, di diventare un bambino nuovo che vuole vivere verità e poesia.
È confortato dall’amore di sua moglie Raffaela, che sa donare l’orgoglio della serenità; al figlio Pietro Maria rivela il suo animo sofferente e gli chiede di porgere la mano e stringerla forte.
Nel viaggio non dimentica i suoi amici, come l’astrofilo Michele Caliano, che fa i turni di notte, Maria Giovanna Vitale, emigrata al Nord e William Stabile che ha raggiunto la Bolivia.
Giungendo a Castelsaraceno, davanti ad un laghetto del monte Alpi, avverte il silenzio dei Padri della terra e sversa nell’iride sale.
Durante il viaggio si afferra con coraggio al padre della lingua italiana, al grande Dante Alighieri, che piega le stelle al suo timone.
La sua è una poesia onesta, sottesa da una forte passione civile e da uno sguardo attento alla realtà storica, sociale, politica ed economica. La si può avvicinare alla poesia di Maria Pina Ciancio, che in Storie minime e unapoesia per Rocco Scotellaro con ritmo sincopato, canta e piange la sua terra, che ritrae nuda e che considera matrigna.
La questione meridionale viene affidata non più alla politica, ma alla poesia, che diventa scudo del tempo e poesia etica, perché pregna di una dimensione collettiva e sociale.
In questa nostra società liquida, il Sud ha bisogno di poeti appassionati e autentici della tempra di D’Alessio, che va al nocciolo delle cose, spronandoci ad avere consapevolezza della nostra identità, per disegnare, insieme a lui, con lampi d’ingegno una siepe e il profumo di lievito del pane di Montefusco, per dissetarci all’acqua che scende dalle nuvole, sorride al sole e spegne il sudore sul mare.


Nessun commento: