lunedì 28 marzo 2011

Su Moniaspina di Monia Gaita

L’Arca Felice, 2010

recensione di Vincenzo D'Alessio

Ritrovo, dopo circa dieci anni, la poetessa Monia GAITA, e la sua poesia. Alla tredicesima edizione, del Premio Nazionale Biennale di Poesia “Città di Solofra”, la Nostra venne segnalata, in modo speciale dalla Giuria dei Giovani, per la limpida forza delle figure poetiche espresse nelle poesie a concorso. Tra queste venne scelta la poesia “A mia figlia”(1998) che riportava questi versi: “(…) E se il vento ebro di affanni offendeva i rami, / la mia voce forgiava falde ambrate, curvità d’argento./”  Oggi, nel leggere i versi della plaquette Moniaspina, pubblicata nella collana “Coincidenze” dell’editore “L’Arca Felice”, ho ritrovato la voce pura della madre che raccontava “storie fiammanti di principi e fate” alla figlia immersa in un “sonno di statua”.
Un cammino lungo, sofferto, operoso, questo di GAITA. Una smania vorticosa di raccontare il suo stato” verginale” di poetessa operosa, instancabile nello scavo alla ricerca della “parola” poetica che completi la  sete di comunicabilità.  La Nostra cerca il lettore-interlocutore proponendo un viaggio nell’acribia dei versi; smarrendolo in una odissea della parola; prendendo in prestito dal Novecento l’invito del nobel Eugenio MONTALE della poesia “i limoni”:” Ascoltami, i poeti laureati / si muovono soltanto fra le piante / dai nomi poco usati: bossi, ligustri o acanti.”
Tutta la ricerca è l’invito, provocatorio, all’ascolto della poesia. 
Lo scrive, nella presentazione alla raccolta di cui parlo,  Mario FRESA: “L’esemplarità e la forza della scrittura poetica in Monia Gaita si fondano sulla sostanza di un gioco proteso alla fuga continua, all’irrequietezza di una mobilità sinuosa e nervosa che mai conosce il muro di un ostacolo” (pag. 7).
La similitudine, la metonimia, l’uso dell’enjambement, i passaggi asindetici dei versi, il corpo delle poesie diviso in tre strofe (prevalentemente), spingono il lettore a inseguire il gioco in cui: “In càmera / dò una marginatura àmpia / ai fogli del sentire” (pag. 9) in precedenza, nella stessa composizione: “(…) mentr’inanello di gràzia perlinguale / pure le chiòme marcate delle voci” (pag. 9). Le parole, forgiate in versi, somigliano a ferro incandescente battuto sopra una incudine da un maglio instancabile , mentre il suono, pervade l’orecchio nell’ascolto con un continuum  che tenta di vincere: “Eppure fogliamo, / senza né capo né coda di speranza, / desideri” (pag.15)
Le figure ricorrenti nei versi: “la paura”; “la speranza”; “il vuoto” e i versi a pag. 25 mi confortano nell’indicare la necessità della poetessa di raccontare la “speranza” quale “desiderio” profondo e inesauribile da comunicare al lettore: “(…) Potrei anche morire / nella cambusa di speranza di quest’ora / e batacchiare ulivi di corallo, / pomiferi radianti, / al desiderio.”
Più avanti la Nostra dirà ancora: “(…) Scocuzzolato pessimismo. / Prurisce d’improvviso / l’emozione” (pag. 26). Quanta forza creativa c’è in questi versi , ma non è facile inseguirla. Bisogna, per forza di lettura, comprendere che la poetessa racconta di sé con questi versi: “(…) Non so saltare dal trampolino dei divièti” (pag. 22).
Una strada scoscesa, verso il mare della poetica di Monia GAITA, che ha messo tante “spine”(provocatorie) alla rosa di questa esemplare raccolta che si apre e si chiude (in quarta di copertina) con un manoscritto poetico che indica al lettore la chiave per entrare nelle volute della conchiglia che difende il fragile corpo del poeta: “(…) Muoio e risuscito / un milione di volte / nei miei versi.”
Montoro, 28 marzo

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