Fara Editore, 2010, € 11,00
È prezioso questo libretto di poesie di Francesca, giovane e trapassata dalla parola e dal dolore e, soprattutto, da una consapevolezza a cui pochi pervengono: “il mondo non ha senso se non per trasformarlo”. Qualcuno obietterà che è affermazione immatura o presuntuosa, comunque del tutto personale; io penso, invece, che se non si è disposti a cambiare il mondo, ci penserà il mondo a cambiare noi. Credo sia meglio adoperarci che lasciarci andare.
L’amore, il più potente degli attrattori, sovente scaglia frecce avvelenate; non si possono evitare, occorre “mitridizzarsi”, ovvero assumerlo come una grazia che ti eleva poi ti spalanca abissi; aspettarsela la freccia, almeno metterla in conto, ma allora si perderebbe la gratuità dell’amore, l’oblatività che chiama a sé. Che fare? Un poeta coglie l’occasione per riconoscersi nei meandri più nascosti, nelle pieghe ornate che celano lo strappo; ne fa uno strumento di analisi, ricrea la situazione e se stesso, si ammanta di nudità: “… Ma il mio bersaglio / era un’illusione d’ingegno / e l’arma raggiante / caricata a salve”) e “lama di rasoio mi faccio, nella carne”.
Francesca non si piange addosso, certifica le lacrime e la menzogna, non cerca la parola consolatoria ma quella che esviscera – sviscera – la disfatta e certifica non la ritrovata innocenza ma la durezza e l’asprezza “io di marmo e / nuda all’origine”; la carne, sorgente del dolore come lo fu della gioia ora non ha altri mezzi per sopravvivere che quello di annientarsi, perché il tempo che non passa ha durate insopportabili. E lui non può più circuirla con nuove frottole.
La scrittura ha denudato anche lui, ne ha svelato grandezze e pochezza: l’amore che finisce lascia sempre feriti, uno grave, l’altro pure anche se non pare. Ma questo aspetto sarebbe faccenda da
psicoterapeuti; quello che resta nel ferito grave è il ricordo e la proiezione verso altri gesti che non gli apparterranno più (spio ogni angolo fuori controllo/ tra le pieghe lascive del tuo tempo a me ignoto) e nel protrarsi di un tempo che sembra pietrificato “Difficile per noi perdersi / nel funerale del pensiero”. E poi anche la rabbia (“Con otto pugni / a penetrarti il cuore”).
Ma verrà il tempo ancora di cantare le stesse sillabe zittite e dalle ceneri, nuova eterna araba fenice, risorgerà il canto, che non cercherà a tutti i costi l’armonia assoluta ma vorrà darsi e dirsi comunque a gola piena. Non è ancora finita: “e oggi è la vigilia / perciò , se puoi, digiunami”, eppure, “non metto in saldo il mio passato / alla fiera dell’uguale”, ma l’ossessione dura e chiunque abbia provata i tormenti dell’abbandono ben conosce il dolore della disconoscenza, del rifiuto.
Ma Francesca ha uno strumento potente contro ogni ossessione o possessione o malagrazia: scrive, quindi produce, quindi è viva, quindi avrà un domani, quindi, ricreerà, quindi…
Questo libretto così crudo e impietoso muove a tenerezza anche il critico che ben vede immagini fulminanti, metafore ferrose e calzanti, ritmi quieti che sedano il gran mare dell’inquietudine.
Salutiamo con piacere una nuova voce promettente, dunque.
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