lunedì 24 maggio 2010

Su La tirannia dell’intimità di Francesca Mannocchi


Fara Editore, 2010, € 11,00

recensione di Narda Fattori

È prezioso questo libretto di poesie di Francesca, giovane e trapassata dalla parola e dal dolore e, soprattutto, da una consapevolezza a cui pochi pervengono: “il mondo non ha senso se non per trasformarlo”. Qualcuno obietterà che è affermazione immatura o presuntuosa, comunque del tutto personale; io penso, invece, che se non si è disposti a cambiare il mondo, ci penserà il mondo a cambiare noi. Credo sia meglio adoperarci che lasciarci andare.
io lei e la romagnaE nella volontà di sopravvivere alla grande ferita degli eventi che frastagliano il percorso, si agita non un bisogno di potenza ma di condivisione, di farsi toccare evitando il colpo ferale.
L’amore, il più potente degli attrattori, sovente scaglia frecce avvelenate; non si possono evitare, occorre “mitridizzarsi”, ovvero assumerlo come una grazia che ti eleva poi ti spalanca abissi; aspettarsela la freccia, almeno metterla in conto, ma allora si perderebbe la gratuità dell’amore, l’oblatività che chiama a sé. Che fare? Un poeta coglie l’occasione per riconoscersi nei meandri più nascosti, nelle pieghe ornate che celano lo strappo; ne fa uno strumento di analisi, ricrea la situazione e se stesso, si ammanta di nudità: “… Ma il mio bersaglio / era un’illusione d’ingegno / e l’arma raggiante / caricata a salve”) e “lama di rasoio mi faccio, nella carne”.
Francesca non si piange addosso, certifica le lacrime e la menzogna, non cerca la parola consolatoria ma quella che esviscera – sviscera – la disfatta  e certifica non la ritrovata innocenza ma la durezza e l’asprezza “io di marmo e / nuda all’origine”; la carne, sorgente del dolore come lo fu della gioia ora non ha altri mezzi per sopravvivere che quello di annientarsi, perché il tempo che non passa  ha durate insopportabili. E lui non può più circuirla con nuove frottole.
La scrittura ha denudato anche lui, ne ha svelato grandezze e pochezza: l’amore che finisce lascia sempre feriti, uno grave, l’altro pure anche se non pare. Ma  questo aspetto sarebbe faccenda da
psicoterapeuti; quello che resta nel ferito grave è il ricordo e la proiezione verso altri gesti che non gli apparterranno più (spio ogni angolo fuori controllo/ tra le pieghe lascive del tuo tempo a me ignoto) e nel protrarsi di un tempo che sembra pietrificato “Difficile per noi perdersi / nel funerale del pensiero”. E poi anche la rabbia (“Con otto pugni / a penetrarti il cuore”).
Ma verrà il tempo ancora di cantare le stesse sillabe zittite e dalle ceneri, nuova eterna araba fenice, risorgerà il canto, che non cercherà a tutti i costi l’armonia assoluta ma vorrà darsi e dirsi comunque a gola piena. Non è ancora finita: “e oggi è la vigilia / perciò , se puoi, digiunami”, eppure, “non metto in saldo il mio passato / alla fiera dell’uguale”, ma l’ossessione dura  e chiunque abbia provata i tormenti dell’abbandono ben conosce il dolore della disconoscenza, del rifiuto.
Ma Francesca ha uno strumento potente contro ogni ossessione o possessione o malagrazia: scrive, quindi produce, quindi è viva, quindi avrà un domani, quindi, ricreerà, quindi…
Questo libretto così crudo e impietoso muove a tenerezza anche il critico che  ben vede immagini fulminanti, metafore ferrose e calzanti, ritmi quieti che sedano il gran mare dell’inquietudine.
Salutiamo con piacere una nuova voce promettente, dunque.

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