martedì 24 febbraio 2009

Su Prima vita di Stefania Crozzoletti


recensione di Narda Fattori

Stefania Crozzoletti, Prima Vita, Fara Editore 2009 , € 11

Prima Vita, opera in versi di Stefania Crozzoletti chiude la prima poesia con una riflessione che fa maturare attese e soccorre la memoria di tante opere lette : “guai ad essere/ beatamente infelici”. D’acchito ho ricordato Shakespeare, quello delle tragedie, dove mai l’infelicità è beata, ma si pone all’origine degli accadimenti; solo in un secondo momento ho colto l’ossimoro del verso, quindi il controllo, la messa in ordine delle emozioni.
Parto da questi due versi per un percorso nel testo che non li smentisca e non resto delusa : conosco la difficoltà (l’impossibilità?) di chiamarsi fuori dai giochi, di farsi identità al di fuori delle categorie del gregge, dei cani-pastore, dei pastori, dei rifiuti creaturali di marginalità. Stefania non ama essere consolatoria, né con l’esistenza degli altri né con la propria.
Anche a lei succede di avere la “mente colma di antipensiero/ … / Intanto/ il pianeta ruota.” quasi fosse indifferente al suo affannarsi, agli affanni delle creature, al dolore e al male e anche alla fatica di consacrarsi ad un’etica sempre più assediata; ad una reticenza del cosmo anche a lei succede di rispondere con una rassegnazione inquieta e in fuga.
C’è molto dolore nelle parole che disegnano lo stare della poetessa in una situazione che si potrebbe definire borderline: da una parte la ribellione e un gran senso di impotenza, dall’altra la consapevolezza di essere contaminata e non esente dal rischio di essere “beatamente infelice”.
Altri versi che trovo emblematici e ossimorici ancora del suo percepirsi creatura uguale diversa, donna di quiete e di tempesta, sono: “… occupo uno spazio ridotto/ poco più di un vaso di fiori/ poco meno di un cassonetto.” E poco più avanti ci interroga, chiama a sé chi è vocato alla sua stessa solitudine spirituale, qui da intendersi in maniera lata: solitudine dello spirito.
E l’ineguatezza riaffermata di chi arranca, fatica, si affanna, non trova nido, casa, perché l’arrivo, la quiete, la casa appunto, è sempre più in là o non si è scorta sperduti nei propri affanni.
Credo che a tutti sovvenga Quasimodo e i suoi Gabbiani (anche se lei non riesce a balenare in tempesta) e lo stesso Montale con il suo irraggiungibile più in là.
C’è nella Crozzoletti un “passato che ringhia”, un presente che la lascia indietro, un futuro che “intravedo con occhi agnostici/ e cerchiati di indolenza”.
Dunque siamo ad una poesia inclusiva, che ha una sguardo lucido su un presente dolente, a cui mancano tracce di consolazione, ma mai a lei straniero: la poetessa è ingranaggio di questa macchina demolitrice e il suo grido è cigolio di ferraglia e pianto di creatura che cerca condivisione fraterna.
Piccola cosa, non può ergersi a giudice, non può perché fatta della stessa materia che impasta la terra nella sua folle corsa verso una “ beata infelicità”. La consapevolezza rasenta la spietatezza:
“calca di apparenti strati leggeri/ ammasso di pietre/ praticamente una tomba” e non tutte le vittime sono innocenti; la sua ribellione è guscio, oltre che pietra, conviene alla vittima non compiangersi troppo e adeguarsi.
E tuttavia in questa “Prima (e unica?) Vita” non ce la fa la poetessa a riassemblare un puzzle di sezioni scomposte del mondo, lo scoramento raggiunge l’immobilità non fosse che, viva e senziente e anche pensante può formulare esorcismi di parole (la poesia) tuttavia insufficiente e incapace di dare ragione del malessere e se i quattro versi che chiudono la raccolta segnalano una stare nella quiete, essa è auspicio, formula beneaugurate, percezione provvisoria.
Il titolo della raccolta presume una seconda vita ma nei versi non ne troviamo traccia, semmai si riafferma la pochezza di questa che non ci basta a formare un itinerario di significati degni.

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