lunedì 17 novembre 2008

Sui passi per non rimanere: una recensione

di Narda Fattori

Se poesia è visione del sé, dell’altro, delle contiguità e delle contaminazioni all’interno del percorso nel mondo, allora proprio non si può scrivere a due voci; per sua stessa natura la poesia è un atto solitario che può accadere ovunque ma risponde a logiche individuali, talvolta condivisibili nel metodo, non nell’armonia, nel contenuto, nel passo. Sui passi per non rimanere, infatti, non è nulla di tutto questo, oserei dire che non sono neppure due voci che si confrontano su vie parallele, anche se si coglie qua e là il tentativo di dare risposta a domande condivise. Infatti le due voci non si mescolano, da una parte quella di Alessandro, dall’altra quella di Chiara, distinte, a volta distanti. Tuttavia il tentativo di rincorrersi sui temi può essere interessante e meriterebbe di essere tentato.
Entrambi i poeti hanno uno sguardo disincantato sul potere della poesia e sulla capacità di avere chiarezza di mete e percorsi. Come affermato dal titolo, che costituisce il primo verso delle poesie di Assiri e ne costituiscono il suo explicit, il viaggio è sempre più importante del suo punto di arrivo e le parole riacquistano un peso se pronunciate dentro uno spostamento, all’interno di un passo; solo così perdono le scorie dell’uso quotidiano , si denudano in una semantica originaria, riconoscono il silenzio e si fanno voce individuale.
La poesia di Alessandro, essenziale e diretta, riflette sullo stato delle cose, dove “il tempo non è pieno / ma solo arrotondato per tornare”, sì che chi vuole andare coglie la dimensione tragica dell’esistente, quella dell’attesa vana, “aspettando bottiglie dal mare”.
L’incontro è difficile perché ci si muove su piani diversi che raramente si incontrano, eppure sono prossimi, e deflagrano quando due diventano uno, che però resta consapevole della duplicità: “e io che sembro un altro / so fare solo con te addosso / … / quanto amore quanto amore/ che passa trascinandosi.”
Dunque neppure l’amore sa trarci fuori dalla gravità, non è in grado di farci volare, però fa proseguire, fa scoprire costellazioni, ma il destino costruisce secondi, ma occorre agire con cautela, rifarsi nuova pagina da riscrivere che il tempo non saprà risparmiare, che teme di non durare “tra l’erba che cresce / e la guerra che non finisce”.
Ci aspettano ricorrenze che tengono in piedi i giorni, ma già il pensiero è altrove, non per timore del tempo che passa, ma di come essa trascorra nel vuoto, nell’insipienza, nel dramma “irrimediabilmente”. Allora occorre ripetersi che “derivare è proseguire / tirare dritto verso il mare”.
E ripensare alla possibilità dei reiterarsi dell’incontro, di risentirsi colmo.
Sono poesie brevi, dome direi, quelle di Alessandro e tutto è giocato su un dettato quotidiano, quasi colloquiale se non sentissimo la padronanza della musicalità, delle rare metafore, dell’esaustività del suo dire. L’attenzione è centrata sui contenuti, non certo sulla retorica e fa di alcune sue poesie piccole perle a illuminare una vita schiva e lontana da ogni forma di omologazione che avida e astuta si introduce nostro malgrado nel quotidiano.

Diversa la poesia di Chiara, di più forte accento, di marcata forza, distesa, a riprova che c’è ancora altro e altro e altro.
Nel tempo “siamo note nel vuoto a cercare uno spartito / e non resta bianco all’infinito il pentagramma”; dunque il tempo fa come la nebbia che tutto offusca, ma consente anche di riscriversi nuovamente, testardamente, sentire la fascinazione dell’andare, trarre chimere dall’attesa “senza aver coperto la distanza”.
Il verso lungo consente alla poetessa di darci dimostrazione di come tutto si disfi e si ricostruisca per ricondensare a caso un senso, e anche se franti ci venga offerta la possibilità di riprendere peso e sostanza e durare e non finire mai la propria porzione di lotta contro tutto ciò che ci vorrebbe fermi e quieti.
Guerrigliera, Chiara afferma che “non ha senso restare sulla soglia” e che “strappati si rinasce … /solo amputando le speranze”. È un divenire pieno di croci e di strappi, ma a strare fermi si ammuffisce, si marcisce, non si trova nulla: andando, ci si può fare male, ma si può incontrare bagliori di luce, tenerezze, significati, amori.
Chiara non cerca una vita a piè di pagina, essa la consuma, annusandola, entrandovi dentro, assaporandolo per rigettarla quando non è di suo gusto, e di suo gusto è raramente, pur tuttavia “il bene intuito dalla negazione / affanna nel sottrarsi, affama”
Questa ultima parola ci dovrebbe far riflettere: affama di nuova vita, di nuove esperienze, di nuova ricerca, senza avvertenze perché già conosce quali siano le controindicazioni e non le teme.
Perché può anche capitare di “… inseguire / in linea d’ombra luci leggere / che nel tempo bruciano/ ben più del sole”.
Lungo il procedere dell’opera anche il linguaggio della De Luca rischiara, giunge ad una consapevolezza che non è consolatoria ma consapevole come affermano questi bellissimi versi: “il bene non entra nelle parole / ho mani di selce che aprono / a poterlo sfregare”.
Mi pare che tutta la storia dell’evoluzione umana sia condensata in queste poche parole: con la selce l’uomo si proiettò in un futuro più abitabile, quella selce è diventata uno strumento della mente che non ha perso la funzione di penetrare sotto ogni scoria .
La poesia di Chiara fa ampio uso di metafore, ma tutte legate come luminarie, segnano il percorso del senso, segnalano un prima per giungere ad un poi.


Una caratteristica comune di entrambi i poeti è quasi la totale assenza di un qualunque paesaggio, cittadino o di campagna: non serve a nessuno dei due che scrivono poesie liriche e nello stesso tempo riflessive e si tengono distanti sia dalla narratività di tanta poesia contemporanea sia dai vezzi delle assonanze delle parole che si associano per similarità di suono.
Non ci troviamo di fronte ad un lirismo sentimentale, ma ad un modello che canta i semi della ragione, il guscio franto delle esperienze nel momento sorgivo o in quello finale, ovvero là dove si coagula il senso.

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