martedì 3 giugno 2025

Nota di lettura di Claudio Ardigò su "L'insonnia di Persefone" e 4 poesie

Borges sosteneva che nel descrivere in poesia la natura si capisce l’intelligenza dello scrittore, per questo lasciatemi dire che Giuseppe Carlo Airaghi e’ particolarmente intelligente.

Una raccolta caratterizzata da una novità nella scrittura, in un recupero arcaico che testimonia l’appassionata ricerca di percorsi originali da parte dell’autore che riserva sorprese continue.

Componimenti dal timbro classicheggiante che si propongono con una sfolgorante luminosità, ma anche nel paludato lessico si affaccia il nuovo attraverso l’arrischiata scelta metrica del verso. Sicuramente un tributo alla regolarità classica, ma il poeta non rinuncia a procedere alla partizione strofica del testo. Non solo a livello iconico, in quanto al lettore attento non sfuggirà quella veste che vorrebbe sembrare improvvisata ma che in realtà è sapientemente orchestrata fino al virtuosismo.

Una raccolta poetica che si differenzia da molte altre proprio nella ricerca e nella pluralità delle tematiche. Probabilmente manca un motivo centrale che funge da accompagnatore lungo il percorso della raccolta e diverse strofe sembrano isolate quasi fossero un soggetto separato ed autarchico, quasi l’autore abbia voluto evitare accuratamente di formare una compatta ondata che calamita si i componimenti, ma li abbia lasciati scorrere ognuno nell’importanza del suo moto minimo. 

Ne consegue l’assottigliamento lirico di quel tema storico che innerva l’opera. Giuseppe Carlo Airaghi riesce a far breccia nella mente del lettore attraverso lo scavo psicologico, anzi una ricerca delle cause psicologiche di eventi e di brandelli di vita senza mai che tale ricerca si ponga in un didascalismo urticante. Al piano storico sottentra quello esistenziale del tempo, quello interiore, in un groviglio di stati d’animo non ricostruibili secondo una rigorosa cronologia del prima e del dopo. Su tutto questo emerge sorprendentemente un fattore in  controtendenza, quello rappresentato da un diffuso uso dei verbi. 

Una rinascita verbale come non  si aspetterebbe,  il loro impiego resta una condizione esistenziale: verbi d’azioni, verbi che servono alla narrazione dei fatti.

Una poesia connotativa che non cancella il significato denotativo ma fondendosi in un unico indissolubile. Una raccolta che segna il superamento della poesia tradizionale, una prova matura e intensa nell’approccio dell’indecifrabile arcano della poesia.

Claudio Ardigò Critico Letterario.


Che accadrebbe se Persefone si stancasse 

di questo millenario andirivieni 

tra la buona e la cattiva stagione, 

tra il suo regno ipogeo 

e i ritorni alla terra della madre?


Le mie lettere sconce


Dopo avere scritto lettere sconce 

su come coltivare l’amore e custodirlo 

come un abitino della festa passato di moda, 

un cimelio indossato come movente 

per non confessare pensieri impuri, 


dopo avere scritto lettere sconce, dicevo,  

e averne fatto poesie immodeste

senza ambizioni di consolazione

arrivo a questa impietosa conclusione:

siamo animali che si assumono il compito 

di dare forma a ciò che è distorto, 

di colmare le mancanze

nei racconti incompleti

con favole che conciliano la veglia, 

immagini che esistono soltanto 

nel momento in cui le guardiamo 

affacciati alla finestra

dando nomi di fantasia ai passanti

che intravediamo, in posa. stagliati 

in un autoscatto 

in controluce.



Prima lettera a Demetra

A quale stagione appartengo, madre? 

A quale luogo? A questo temporaneo,

caduco fiorire, a questa luce materna, 


a questo rimbalzare di campane in lontananza? 

Oppure appartengo al mio ambiguo regno,

al mio matrimonio con le tenebre?


Madre, perdona la bestemmia eppure 

nel mio scuro inverno non soffro

la tua mancanza. Laggiù  sono regina.


Il cazzo di Ade è privo di gentilezze

ma non è  gentilezza che cerco 

nel nostro letto regale. 


La primavera mi entra nel cuore,

l'inverno nella vagina.


Nello medesimo morso 

inghiotto verme e mela.


Il mio compito principale è ricordare 

cosa mi rendeva felice.




terza lettera a Ade

Ci si abitua a ogni cosa, Ade,

persino agli inferni domestici, 

persino a considerare rifugio

ciò che in realtà è prigione.


Sono stanca di traslochi, di riempire 

e svuotare cartoni, di reificare 

e inghiottire le mie incertezze 

a ogni cambio di stagione. 


Il prossimo passo sarà pronunciare 

la verità bestiale. Coprirsi di botte, 

di sputi, di lividi, di confessioni.

Andare incontro alle ferite. 


Sopravvissuti a questo scontro sapremo 

volgere le spalle alle menzogne taciute.

Mi preparo a una felicità senza pietà.


Metterò a tacere la carne 

quando la sera cala e regna la grazia 

sfuggente che chiamiamo nostalgia.


il tuo sesso divino mi inchioda

alle mie perversioni, ma baciarlo 

è colmarmi la bocca di un pasto 

che non mi sa più saziare.


Sfiorare la gioia equivale a mancarla.

Tra i buoni propositi e l’effettività

rimane una distanza incolmata


una meta interdetta.



seconda lettera a Demetra


Attenderemo insieme la stagione

di cui conservo solo i tuoi racconti.

La neve livellerà gli orti,

la mano dell’inverno zittirà 

le piante dei giardini. Il tempo, 

in attesa, si farà tela di ragno 

incompiuta. 


La neve sarà  il ricordo 

di un odore buono,

una sorta di consolazione, 

un racconto a bassa voce 

per cullare il sonno ai bambini.


Non ricordo cosa l’inverno sia, madre,

lo conosco soltanto attraverso 

i tuoi incompleti racconti. 


Quante notti ho sognato

di potere toccare la neve, di svelare

il significato del suo biancore.


Quando la neve distenderà 

la propria silenziosa quiete,

ogni rosa si affiderà alla sua benedizione.


Esitando tra affermazione e dubbio

il desiderio traboccherà, 

si spargerà in ogni direzione.


Allora maledirò le rinunce tollerate

alle quali sono sopravvissuta, 

rassegnata, senza ribellione


fino a questa mia decisione estrema.



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