Una raccolta caratterizzata da una novità nella scrittura, in un recupero arcaico che testimonia l’appassionata ricerca di percorsi originali da parte dell’autore che riserva sorprese continue.
Componimenti dal timbro classicheggiante che si propongono con una sfolgorante luminosità, ma anche nel paludato lessico si affaccia il nuovo attraverso l’arrischiata scelta metrica del verso. Sicuramente un tributo alla regolarità classica, ma il poeta non rinuncia a procedere alla partizione strofica del testo. Non solo a livello iconico, in quanto al lettore attento non sfuggirà quella veste che vorrebbe sembrare improvvisata ma che in realtà è sapientemente orchestrata fino al virtuosismo.
Una raccolta poetica che si differenzia da molte altre proprio nella ricerca e nella pluralità delle tematiche. Probabilmente manca un motivo centrale che funge da accompagnatore lungo il percorso della raccolta e diverse strofe sembrano isolate quasi fossero un soggetto separato ed autarchico, quasi l’autore abbia voluto evitare accuratamente di formare una compatta ondata che calamita si i componimenti, ma li abbia lasciati scorrere ognuno nell’importanza del suo moto minimo.
Ne consegue l’assottigliamento lirico di quel tema storico che innerva l’opera. Giuseppe Carlo Airaghi riesce a far breccia nella mente del lettore attraverso lo scavo psicologico, anzi una ricerca delle cause psicologiche di eventi e di brandelli di vita senza mai che tale ricerca si ponga in un didascalismo urticante. Al piano storico sottentra quello esistenziale del tempo, quello interiore, in un groviglio di stati d’animo non ricostruibili secondo una rigorosa cronologia del prima e del dopo. Su tutto questo emerge sorprendentemente un fattore in controtendenza, quello rappresentato da un diffuso uso dei verbi.
Una rinascita verbale come non si aspetterebbe, il loro impiego resta una condizione esistenziale: verbi d’azioni, verbi che servono alla narrazione dei fatti.
Una poesia connotativa che non cancella il significato denotativo ma fondendosi in un unico indissolubile. Una raccolta che segna il superamento della poesia tradizionale, una prova matura e intensa nell’approccio dell’indecifrabile arcano della poesia.
Claudio Ardigò Critico Letterario.
Che accadrebbe se Persefone si stancasse
di questo millenario andirivieni
tra la buona e la cattiva stagione,
tra il suo regno ipogeo
e i ritorni alla terra della madre?
Le mie lettere sconce
Dopo avere scritto lettere sconce
su come coltivare l’amore e custodirlo
come un abitino della festa passato di moda,
un cimelio indossato come movente
per non confessare pensieri impuri,
dopo avere scritto lettere sconce, dicevo,
e averne fatto poesie immodeste
senza ambizioni di consolazione
arrivo a questa impietosa conclusione:
siamo animali che si assumono il compito
di dare forma a ciò che è distorto,
di colmare le mancanze
nei racconti incompleti
con favole che conciliano la veglia,
immagini che esistono soltanto
nel momento in cui le guardiamo
affacciati alla finestra
dando nomi di fantasia ai passanti
che intravediamo, in posa. stagliati
in un autoscatto
in controluce.
Prima lettera a Demetra
A quale stagione appartengo, madre?
A quale luogo? A questo temporaneo,
caduco fiorire, a questa luce materna,
a questo rimbalzare di campane in lontananza?
Oppure appartengo al mio ambiguo regno,
al mio matrimonio con le tenebre?
Madre, perdona la bestemmia eppure
nel mio scuro inverno non soffro
la tua mancanza. Laggiù sono regina.
Il cazzo di Ade è privo di gentilezze
ma non è gentilezza che cerco
nel nostro letto regale.
La primavera mi entra nel cuore,
l'inverno nella vagina.
Nello medesimo morso
inghiotto verme e mela.
Il mio compito principale è ricordare
cosa mi rendeva felice.
terza lettera a Ade
Ci si abitua a ogni cosa, Ade,
persino agli inferni domestici,
persino a considerare rifugio
ciò che in realtà è prigione.
Sono stanca di traslochi, di riempire
e svuotare cartoni, di reificare
e inghiottire le mie incertezze
a ogni cambio di stagione.
Il prossimo passo sarà pronunciare
la verità bestiale. Coprirsi di botte,
di sputi, di lividi, di confessioni.
Andare incontro alle ferite.
Sopravvissuti a questo scontro sapremo
volgere le spalle alle menzogne taciute.
Mi preparo a una felicità senza pietà.
Metterò a tacere la carne
quando la sera cala e regna la grazia
sfuggente che chiamiamo nostalgia.
il tuo sesso divino mi inchioda
alle mie perversioni, ma baciarlo
è colmarmi la bocca di un pasto
che non mi sa più saziare.
Sfiorare la gioia equivale a mancarla.
Tra i buoni propositi e l’effettività
rimane una distanza incolmata
una meta interdetta.
seconda lettera a Demetra
Attenderemo insieme la stagione
di cui conservo solo i tuoi racconti.
La neve livellerà gli orti,
la mano dell’inverno zittirà
le piante dei giardini. Il tempo,
in attesa, si farà tela di ragno
incompiuta.
La neve sarà il ricordo
di un odore buono,
una sorta di consolazione,
un racconto a bassa voce
per cullare il sonno ai bambini.
Non ricordo cosa l’inverno sia, madre,
lo conosco soltanto attraverso
i tuoi incompleti racconti.
Quante notti ho sognato
di potere toccare la neve, di svelare
il significato del suo biancore.
Quando la neve distenderà
la propria silenziosa quiete,
ogni rosa si affiderà alla sua benedizione.
Esitando tra affermazione e dubbio
il desiderio traboccherà,
si spargerà in ogni direzione.
Allora maledirò le rinunce tollerate
alle quali sono sopravvissuta,
rassegnata, senza ribellione
fino a questa mia decisione estrema.

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