recensione di AR
Condivido pienamente quanto il poeta macedone afferma nel verso riportato qui sopra a mo’ di titolo di questa recensione. Si trova in Momento eterno (p. 139). Nella poesia successiva (Gilgamesh, p. 141), l’ultima del libro, troviamo questi versi: “Oh, Gilgamesh, fratello mio / anche oggi / non posso sfuggire al tuo destino / – sono / costantemente / un terzo di uomo / e due terzi di desiderio.”
A p. 121, Lettura da destra a sinistra ci offre una bellissima immagine metapoetica e al contempo corporea, onirica, reale (c’è una continua oscillazione fra carnale e spirituale, fra terrestre e celeste, nelle poesie della raccolta, anzi dovrei meglio dire connessione):
(…)
nessuno potrà mai vedere quello che hai sognato
a meno che tu non scriva qualcosa sul vetro della finestra.
È così che i poeti scrivono i loro sogni –
e devi imparare a leggere da destra a sinistra.
E ciò è buono,
perché quella scrittura in cui la fine del pensiero
coincide con l’inizio del sentimento
non avrà mai fine.
In Dittico del dolore (p. 117) Borce confessa: “Mi chiedo spesso / quanto poco ossigeno c’è nel dolore / e come è possibile creare un cielo della parola / da una così piccola quantità di ossigeno.”
Chi non ha sentito, nel dolore, nella sofferenza, nei momenti di angoscia, avere il fiato corto, una fame d’aria persistente? Eppure, da quelle situazioni al limite, a volte incomprebili, altre volte palesemente ingiuste; in quelle celaniane svolte di respiro in cui la riserva di ossigeno è minima, evanescente, ecco che può nascere la poesia e/o la preghiera più autentica e meno schermata. In Origami (p. 115) Borce narra una storia che mi riporta alla preadolescenza: lascia cadere “dall’edificio più alto della città” degli uccelli di carta e si precipita “giù per le scale / per farli atterrare nelle mie mani – / (…) / Aspettavo e speravo / che qualcuno avrebbe letto / quelle poche parole / che avevo scritto sulle loro ali. / Improvvisamente, / (…) / le mie parole / come uccelli / han ricomniciato a danzare nel cielo.”
Trovo struggente questo racconto in versi che è una sorta di autoanalisi della pulsione a scrivere poesie. Borce unisce una mente altamente speculativa a una concretezza delle piccole cose, delle situazioni che ci condizionano e ci spiazzano. Ad esempio in Arte poetica (p. 111): “… c’è sudore tra il volume / e la temperatura dei pensieri / (…) / la vera saggezza è / sapere come trattenere il respiro / e scavare per farlo uscire al momento giusto – / per soffiare via le ceneri / e mostare ciò che è stato scritto.”
Mi piace a questo punto riportare integralmente L’angelo del poeta (p. 109) composta di versi brevissimi: “Il mio angelo / dice / che / egli stesso / è / un / angelo / caduto / come / un’ancora / sul fondo / della / gloria / di Dio.”
Mangifica nella sua icasticità.
Sempre descrivendo la sua vocazione, Borce afferma in Esitazione fossile (p. (107): “e il mio corpo / era l’unico spazio e tempo / come una grande nave piena di parole / (…) / e il mattino mi premeva con l’indice di un giorno / il giorno – con un momento / il momento con tutto il tempo / tutto il tempo con la domanda / Quanto costa una parola non detta / che esita tra la vita e il peso del caos?”
Notiamo anche tracce di un sagace umorismo : “Succede / che la mia anima / mi sorpassi / mentre corro / e che il mio povero corpo / stringa i denti / per raggiungerla” (Corridore, p. 77); “… non so mai / cosa possa disturbare il mio equilibrio / perché la notte è l’ora di punta dei pensieri” (Sangue che si destreggia con 8000 pensieri poetici, p, 53); “l’abbraccio è l’unica consolazione, / mi sussurri mentre gli occhi hanno sete delle lacrime / legano la mia anima al deserto della carta / con parole che si muovono come dune” (L’angelo del respiro, p. 47); “Oh, mio Dio, facci bruciare con il tuo fuoco, / e non con il nostro.” (Idrogeno, p. 37); “… le nostre ombre si congelano / sullo scheletro del futuro / e crediamo di aver creato il tempo.” (Lo scheletro del futuro, p. 27); “E mi chiedevo, potresti, oh mio Dio, / sognare con le mie parole, / e potrei svegliarmi nelle tue almeno una volta?” (La torre di Babele, p. 25); “abbiamo lasciato il paradiso / con il linguaggio de serpenti.” (Linguaggio universale, p. 13).
Come scrive del Nostro Elisabetta Bagli nella Prefazione, i suoi “versi sono riflessioni a cuore aperto” (p. 6), un cuore attento e sensibile che sa volare alto.

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