Ogni tanto mi viene da pensare alla questione di come cambia il mondo, la realtà, ciò che siamo in grado di osservare – la corolla di un fiore come una costellazione – in virtù della luce. O meglio in base alla sua presenza, alla sua assenza o penuria, alla sua intensità, ai suoi possibili e spesso imprevedibili giochi di intermittenza.
A incoraggiarmi a riflettere su questo tema, che è trasversale e ricco di addentellati con svariati contesti semantici, c’è stata di recente la lettura di un agile libro di Marco Mastromauro, una silloge poetica intitolata Separati da raggi dispersi (FaraEditore), ma confesso che in questo “percorso” il titolo è stato solo un pressoché impercettibile complice.
Curiosando tra i versi di quest’opera, che ha avuto il merito di risultare prima classificata all’edizione dello scorso anno del “verace” concorso letterario Faraexcelsior e che tra i suoi esplicitati mentori ha Thomas Bernhard, Etty Hillesum, Pierluigi Cappello e Paul Celan, ci si imbatte sin da subito in alcuni elementi interessanti.
I quali fanno di questo volumetto un libro pieno di luci, appunto, ma con la partecipazione attiva anche di qualche ombra, che non guasta mai quando si è alla ricerca dell’essenza delle cose e si desidera sbirciare al di là della mera apparenza.
Intanto apprezziamo le “sfumature di un inquieto narrare” (l’inquietudine è promossa dall’incompiutezza di alcune parole), mentre i “ricordi in cerca di pace” si confondono con le ombre che vanno occupando la piazza; poi ci accorgiamo che certi volti si accendono grazie a sorrisi che tengono insieme soavità e allucinazione; poi ancora incontriamo proprio quelle intermittenze di luce e buio dalle quali siamo partiti e subito dopo siamo proiettati, come lettori un po’ incantati, oltre il giardino dove “si rischiarano i prati fino a fondovalle”.
Manco il tempo di riprendersi dalla meraviglia che i raggi luminosi, lesti prima di rintanarsi sotto i porticati cittadini, giungono tra pietre e rovi con una loro precisa missione: abbagliarci. E se sciami di api scintillano leggeri, è all’imbrunire che avviene forse la miglior magia: “Si fa di vetro il nostro stare insieme” nel cuore di uno spettro di luci venute da chissà dove.
Non mancano neanche i transiti da oscure dimore, né le malvagità di Acab e Gezabele, in buona parte celate nell’ombra (Narrare); né tantomeno mancano i giorni assolati, durante i quali la più accecante delle luci finisce per sommergere pure le macchie dei lecceti che, prima o poi, vivranno un loro ruolo da protagoniste nelle pagine di un diario. Altrove invece le gramigne sono sospese tra il non detto e il sole che si diverte a far capolino (Meduse).
C’è luce, naturaliter, pure nelle “pozzanghere d’arsura” e gli spiragli di luce sembrano fare appena il solletico al mistero che talvolta ci sovrasta.
E che belle le lanterne che si accendono mentre, disposti nei viali, cerchiamo di farci trovare pronti a un sempre nuovo fuoco!
Il titolo della silloge è donato dall’incipit di Separati: “Separati da raggi dispersi / che attraversano la solitudine del bosco, / i rami, le foglie minuscole, / lontani dai giardini, dai giochi estenuati / dalla febbre del risveglio”. Ma indirettamente quel titolo è dato anche da quanto segue: delle panchine al sole e il buio della galleria; la primavera che s’affaccia e un lampadario sbeccato; la città innaffiata dallo splendore e il mare che “vediamo” solo attraverso acquemarine, gusci e luminosi mondi balneari; degli spegnimenti notturni e dei sentieri in penombra; ancora un volto, ma stavolta fatto di un antico pallore, vicino a un monolite intriso di una sapienza che è invece priva di luce; un atrio buio e riverberi diffusi che, piano piano, ci guidano verso un campanile illuminato. Il posto migliore dove concederci una breve sosta.
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