Con il romanzo biografico di Teresa Armenti, “Mio padre racconta... il Novecento”, ci si rende conto maggiormente, che il valore della memoria è inestimabile e insostituibile, perché ci appartiene come cellula segreta di cui non possiamo fare a meno. Le nostre vocazioni migliori sgorgano da questa catena luminosa che ci contiene da subito, come una culla. La memoria con i suoi gesti quotidiani è la prima condivisione di una famiglia e l’urgenza di farne parte è involontaria, esattamente come sono involontari la gioia e il dolore.
Il romanzo, molto ben strutturato nella narrazione, espone le vicende del papà dell’autrice, Felice Armenti, uomo e lucano esemplare che ha saputo conservare la purezza nei momenti più duri, anche con un fucile in mano. Gli episodi toccanti sono tanti, e in ognuno vi è una lezione morale che stupisce, poiché le due visioni, figlia/padre, si sovrappongono nel sentire e nella parola, divenendo cosa sola nell’esperienza del donarsi umanamente l’uno all’altra e viceversa. Il lavoro complesso dell’autrice è evidente sin dalle prime righe, perché la traduzione del proprio dialetto, a mio avviso, implica un coinvolgimento emotivo e una comprensione intima, che distanzia ogni altra traduzione. Più volte, durante la lettura, ho immaginato l’autrice in compagnia del papà, intenta con penna e registratore a stabilire un valido inizio, un intermezzo avvincente, una fine compiuta, un collegamento appropriato, china sul suo tavolo, preoccupata nel sentire filiale, ora nervosa per un’ingiustizia, ora commossa per la genuinità dei modi, e ora dispiaciuta da un lutto, nella composizione di una storia che oltre a renderla autrice, la rendeva figlia ancora una volta e portavoce di una memoria antica, ma mai vecchia. L’apertura del romanzo è di una bellezza poetica sconvolgente, perché l’amore e il sacrificio nella vita di Felice saranno sempre due comparse obbligate e inseparabili, unite dalla verità dei fatti, che fino all’ultimo caratterizzeranno, a qualsiasi prezzo, anche la sua indole.
Ariccia, 9 dicembre 2022
Marina Minet
Un frammento del romanzo:
Infortunio con il moschetto 91
(...)
«Comandate, signor Maggiore». «Tu mi devi raccontare per bene come hai fatto a spararti». Riferii nei minimi particolari l’episodio. Egli mi disse: «Il fucile era in posizione di sparo». Io gli risposi: «Signor Maggiore, il fucile era in posizione di sicurezza». E lui insisteva: «Non dire sciocchezze! Il fucile 91 non può mai sparare se non è in posizione di sparo». Io ripetevo: «Signor Maggiore, a me è successo in posizione di sicurezza». E lui ordinò, seccato: «Armenti, invece di mandarlo a Cesana Torinese, lo mandate a Pinerolo, in punizione». Andai a Pinerolo. La mattina seguente, il Maggiore mi trovò nel cortile: «Armenti, ancora dovete metterlo dentro!» – gridò, indispettito. Tutti rimasero meravigliati e mi chiedevano quale errore avessi commesso. «Se vuoi venire a parlare con me, ancora fai in tempo» – diceva, intanto, il Maggiore. Ed io: «Signor Maggiore, quello che dovevo dirvi, ve l’ho riferito ieri». Lui rispose: «Va bene, mettetelo dentro». Entrai dentro la prigione, in attesa di punizione. Dopo due o tre giorni mi chiamò un Maresciallo e mi chiese: «Mi devi raccontare il fatto come è avvenuto». Io gli raccontai per filo e per segno tutto quello che mi era capitato. Egli mi voleva prendere in trappola chiedendomi: «É possibile che il fucile 91 ha sparato in posizione di sicurezza?» «Signor Maresciallo, il fucile era in posizione di sicurezza» – affermai con decisione e me ne andai. Il Colonnello andò a Cesana Torinese, prese il mio fucile, introdusse una cartuccia a salve, lo consegnò a un soldato e gli ordinò di compiere gli stessi movimenti che gli avevo riferito. Il soldato eseguì gli ordini e anche con lui partì il colpo in posizione di sicurezza. Così uscii in libertà, altrimenti sarei andato sotto processo. (p.46-47)
TERESA ARMENTI
Mio padre racconta il Novecento
Edizioni Magister, 2022
http://www.associazioneadei.it/magnum-edizioni/
Nessun commento:
Posta un commento