Fabio Dibenedetto, L’antico appena nato, Ensemble 2022
recensione di AR
“Farò della mia carne / terra molle / e affronterò i digiuni / scivolando / sui cristalli / della via maestra.” (p. 62)
Già il titolo ossimorico di quest’opera esprime la tensione poetica che la pervade: la vita è energia che nasce dalla agnizione di polarità complementari (carne/spirito, luce/tenebra, ecc.) che, per funzionare, debbono essere in relazione attraverso di noi che ci avviciniamo in certi momenti più all’una in altri a quella opposta e questo movimento ci trasforma, ci dà la consapevolezza di chi siamo, ci mette in contatto con la realtà fisica e ultrafisica: “Il poeta rode il fianco / del mandorlo vecchio / contro schiene e lune fatue. / Chinato / colui che ara lo vede, / conta il tempo che il deserto / separa dai raccolti.” (p. 59); “Immagine senza figura / corpo senza misura, / arazzo in cui / s’intrama l’uomo / solo se compiuto.” (p. 21); “ciò che / ti condiziona / è il segno / dell’incondizionato.” (p. 42).
Caratterista saliente del poeta siculo-toscano è anche l’uso di accostamenti insoliti (che i latini chiamavano callidae iuncturae), di similitudini e di metafore spiazzanti e gongorismi assai riusciti: “Quartieri di botteghe / senza più mestieri / solo teologi / cambiavalute / (…) / piogge promesse / discese come spade / tra le piume.” (p. 54); “Una nascita pura / straluce in volto / a tutti gli alfabeti.” (p. 31); “Eri la fanciulla / che suda rugiada / piedi a cui / la terra si / imperlava.” (p. 29, versi che possono essere ricomposti, con iato fra a e cui, in due splendidi endecasillabi); “La mia licenza / è in ogni ’io’ / che dico, / che non io, dico. / (…) / Alle labbra dell’inverno / la tempesta porta / brezze tiepide.” (p. 16).
Questo modo di procedere che innesca le contraddizioni, che mette in agitazione i nostri frammenti di vita, che ci ci porta a scavare in noi stessi nel confronto con gli altri, con l’Altro e con una realtà incontenibile… ci porta a far nostro il desiderio del Nostro di condividere un cammino di consapevolezza in questo nostro andare tessuto dal rapporto con le cose, dagli incontri e dalle relazioni che più sono intense e vere quanto più sono libere da attaccamenti idolatrici, come può esserlo anche quello del poeta ai propri versi, se non diventa appunto sciolto e svincolato e intimamente grato (si veda in tal senso l’emblematica poesia a p. 38, di seguito riportata integralmente): “Quando scrisse / il verso matrice / il primo poeta / chi lo ispirò? / Da quali letture imparò? / Tracciato dove, / il segno? / Nello scordato gemito / s’è incustodiato / il bel segreto, / dal filo logico / imprendibile.” (i 4 versi finali possono comporre due perfetti novenari).
I settenari (ossimorici anch’essi) che intitolano questa recensione sono tratti dalla poesia II a p. 43 che prosegue (scollinando dopo poco nella pagina successiva) così: “e nelle morte alture / coltivo un solo fiore. / Mi arrendo / per ciò son padrone, / mi perdo, / per ciò mio pane è un sole. / Mi spoglio / e una fossa diviene / il mio abito nuziale.”
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