Sergio Fabbri, Zemlja, Raffaelli 2004
recensione di AR
Il verso che intitola questo nostro interramento (zemlja, o varianti affini, significa “terra” nelle lingue slave come sloveno e serbo-croato) nella poesia di Sergio Fabbri è il primo della raccolta ed è seguito da altri due posti fra parentesi (che non riveliamo): una sorta di esergo. La composizione 1. si apre con una domanda – “Quali sono i luoghi che ci appartengono…?” (p. 13) – a cui seguono alcune risposte fra le quali questa: “Forse sono i volti a inchiodarci”. Proseguendo nella lettura, la poesia 6. (p. 23) ci offre – crediamo – una splendida e intensa sintesi delle questioni che, come braci seminascoste dalla cenere ma capaci di ravvivarsi con forza a una corrente d’aria, intessono il libro:
La casa è una città, la città è una terra,
la terra è un mondo inesistente.
Talvolta a mancare è la voce
del padre, talvolta a brillare è il fuoco
dietro l’ombra del mondo.
Cosa diventa lo sguardo, se a guardare
non ci sono più luoghi intorno,
se con voce potente nessuno
pronuncia il libro dei nomi?
Sfogliando l’anima come un libro,
come un esercito chiamandola
a raccolta, scivola via sotto i piedi
la terra, il suo mistico abbaglio.
Potrebbe la terra chiamarsi
zemlja, mesto la città oppure hiša
la casa…
Sono così le idee l’unico luogo
a cui è possibile tornare.
Tutto si trasforma e, con Eraclito, non possiamo immergere due volte il piede nella stessa acqua. Ecco allora il valore della memoria (“un olocausto di memorie / è ciò che resta dell’anima.”, p. 56), dei fotogrammi di vita che si sono incisi nel cuore, delle emozioni e sensazioni che hanno lasciato traccia nelle nostre membra e nella nostra anima che in fondo non è mai del tutto nostra perché anch’essa cresce e si trasforma grazie agli incontri (“Con eccesso di zelo / talvolta ci riflette // fedele autoritratto / lo spazio vuoto d’un incrocio.”, p. 48), agli scontri, alle relazioni, agli eventi felici o dolorosi di cui diventa un catalizzatore con caratteristiche uniche ma sempre necessitante delle alterità, delle polarità che, mettendolo in tensione, lo “attivano”. Nella poesia 7. (p. 25), Sergio ci dice con bellissima immagine “del corpo / che porta l’anima / come un’ingombrante mongolfiera…”. Nella 9. (p. 28) troviamo un desiderio di essere abbracciati (non solo spiritualmente) dal divino che solo può eternarci, dare un senso a ogni nostro respiro, altrimenti destinati a svanire come hevel qoheletiano: “Ognuno coltiva una somma / d’angoli battuta dal vento / e dagli odori del tempo, il racconto / compresso in un respiro.”
Nella seconda sezione di Zemlja, intitolata “A ogni Dio – Versi dell’ultima ora –” e dedicata a Mara / il luogo dell’amore, troviamo un esergo assai interessante (p. 40): La verità non scaturisce dalle parole, ma dai gesti. Ciò che raccontiamo è la perenne contraddizione del mondo, la morte irrisolta. La scrittura più alta può essere terapia, non coscienza. L’anima è molto di più.
C’è quindi una fortissima tensione spirituale, sia pure da parte di un poeta di formazione scientifica e, al tempo, con un approccio quantomeno “sospeso”, se non del tutto pirronista, in merito alle questioni “imponderabili” che pure ci segnano così profondamente (a p. 54 si parla di “un languore spirituale / a ridosso di Dio”) e di cui percepiamo la preziosità tanto che a p. 47 troviamo questi versi di un lirismo assoluto che ci ricorda il Cantico dei cantici: “Se fossi stato voce / avrei di respiro / riempito la tua bocca / la lingua ai baci perdendo.”
Più avanti (p. 50): “Consolami così, / donandomi il tuo nulla // nascosto tra le gambe / o dove l’anima si ferisce.”
Zemlja è dunque terra feconda, ferita, amata, interrogante… chiede allo sguardo di andare oltre, di accogliere sì le vibrazioni telluriche e quelle dei sensi ma di aprirsi al tempo stesso (inevitabilmente) a quelle celesti che squarciano il tempo e ci mettono a nudo (cfr. p. 63): “E siamo già in troppi // nell’angolo angusto del grembo / a respirare in due / (l’anima che abbaia ed io). / Lascia che mi scortichi / la bora invernale, lo stupore // sdegnato del bambino, / «Io morirò? Io… morirò?»”
Come scrive Giovanni Rimondini nella postfazione intitolata “Cornice” (p. 68): “La parola indicibile fonda, come il significante di Lacan, il dire: sé stesso, cioè la poesia, e il significato, cioè il racconto”.
In fondo solo la poesia può cogliere il suono della brezza sottile (cfr. 1Re 19,12) in cui si manifesta il Divino.
1 commento:
TOUT SE TIENT
Non so se è previsto che un commento lo posti proprio chi è stato recensito. Ma tant'è, questo è il modo con cui intendo ringraziare Alessandro...
Se questa recensione l'avessi letta l'anno in cui il libretto Zemlja è stato pubblicato (quasi vent'anni fa), sicuramente il mio ego si sarebbe gonfiato come una "mongolfiera", di fronte a parole tanto lusinghiere che richiamano addirittura il Cantico dei Cantici e il Qohelet o che parlano persino di un "lirismo assoluto"...
Per fortuna, è passato un tempo sufficiente affinché l'ego si sgonfiasse almeno un po' e lasciasse spazio a un atteggiamento che, lottando strenuamente contro l'orgoglio, cerca di vedere nell'essere di quando in quando attraversati dalla poesia più un dono che un'abilità, più una grazia che un merito...
A dire il vero, ho sempre pensato che chi scrive poesie non parla per sé, non comunica idee o concetti, non esprime opinioni, ma "semplicemente" si lascia agire dalla Parola, che arriva inevitabilmente sempre e solo quando vuole lei! Soltanto che in quella consapevolezza che quasi mi precorreva, c'erano ancora molte ombre da dipanare, molte ferite da reinterpretare, molti limiti da accettare...
Dunque, accolgo l'analisi di Alessandro con intima gioia, perché mi ha in un certo senso costretto a gettare nuovamente luce su quei tentativi di dare senso al presente, a tutto il presente, facendomi capire come davvero quei versi contenevano e contengono ancora assai di più di chi li ha, ma solo materialmente, scritti...
Assicuro che quando annotai che "La scrittura più alta può essere terapia, non coscienza. L'anima è molto di più", frasi riportate da Alessandro, davvero non sapevo che cosa stavo dicendo! Era per me un pensiero, in parte provocatorio, di cui probabilmente mi colpiva la sua molteplicità di significati. E sempre mi affascinano le situazioni aperte, solo apparentemente decifrabili, che rimandano a una grammatica trascendente (non era Bachelard che diceva che la parola poetica ha una sua propria esistenza ontologica?). Forse - e dico forse - le capisco adesso quelle parole, adesso che Alessandro mi ha indotto a rileggerle, alla luce tra l'altro di una conversione piuttosto recente: mi rendo conto che davvero la volontà di Dio è magnificamente insondabile...
E qui mi fermo, ché altrimenti scriverei la recensione di una recensione. Posso solamente dire di nuovo ad Alessandro: grazie di cuore!
Sergio
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