lunedì 28 marzo 2022

Il visconte dimezzato. Violenza e miopia dell’assolutista

 

Erano anni che non leggevo Il visconte dimezzato; anzi, si può dire che è come se non lo avessi mai letto, dal momento che non ne ricordavo la trama e i personaggi. È stata una lettura che mi ha piacevolmente sorpreso per la sua freschezza e attualità, nonostante ci separino dalla prima pubblicazione sessant’anni. Così è nata questa riflessione. Spero di non travisare in maniera eccesiva il messaggio che lo stesso Calvino era intenzionato a esprimere, poiché egli stesso afferma in un’intervista del 1983 a degli studenti di Pesaro: «Io sono anche sempre molto attento ai significati: bado a che una storia non finisca per essere interpretata in modo contrario a come la penso io».

Il visconte Medardo di Terralba è tornato nelle proprie terre dalla guerra in Boemia, dove una palla di cannone ha diviso a metà il suo corpo. L’intervento medico sul campo sembrerebbe riuscito a salvare solo una metà, sancendo la definitiva scissione tra la parte sinistra e destra, tra bene e male. Il visconte che si ripresenta infatti a casa apprendiamo essere la sua parte malvagia (la destra), che non tarda a compiere i suoi misfatti in giro per la contrada. Tutti temono il battere inesorabile degli zoccoli del cavallo che lo trasporta e vivono nel terrore che il loro signore possa apparire e giocare qualche brutto tiro. Tuttavia in Terralba non tarda a ritornare anche la parte buona (la sinistra), sopravvissuta anch’essa alla micidiale cannonata. Da quel punto preciso della narrazione inizierà una guerriglia tra le due metà, dove per ogni male compiuto una buona azione accorrerà istantanea a rimediare. Una lotta senza quartiere tra le parti della stessa persona, tra due assoluti che non sembrano disposti recedere di un millimetro dalle loro posizioni. Se infatti la parte oscura di Medardo è l’incarnazione del male assoluto senza redenzione, anche la parte buona non riesce a discostarsi dallo sguardo estremista, seppur di segno contrario, che caratterizza la sua nemesi. Infatti la sinistra del visconte è spinta al diniego assoluto di se stessa e alla rinuncia più aspra pur di compiere quello che per lei rappresenta il bene assoluto.

            Sebbene il lettore possa essere portato a immedesimarsi e parteggiare per la parte buona di Medardo, permane tuttavia una sensazione di incompiutezza in questo eroe contrapposto al lato oscuro: c’è qualcosa nella sua bontà che stride con il buon senso e la ragionevolezza. La sua abnegazione è qualcosa di slegato dalla realtà che lo circonda; vive nel completo estraniamento dell’altro, non lo considera affatto, tutta preoccupata a portare a compimento la propria visione del mondo. Ne è un esempio l’episodio con gli ugonotti: il visconte propone a questa comunità di abbassare il prezzo della segala che produce per aiutare i poveri del circondario, arrivando alla svalutazione della merce. Un’azione lodevole, non c’è che dire: eppure è fin troppo facile fare la carità con il portafoglio dell’altro. Proprio per questo anche la parte buona di Medardo (come quella cattiva, ma per altri motivi) viene bandita dalle terre ugonotte. Anche il bene può dare fastidio. Dice Calvino nella medesima intervista agli studenti di Pesaro: «Alle volte i buoni, le persone troppo programmaticamente buone e piene di buone intenzioni sono dei terribili scocciatori».

            A ben guardare allora entrambe le metà di Medardo nascondono la stessa insidia: riducono la dialettica del reale dentro i loro schemi di conoscenza, forzandola, piegandola e annullandola. Emblematica, a tal proposito, è la confessione che il visconte malvagio fa al nipote in riva al mare, mentre è impegnato nella pesca dei polpi: «Così si potesse dimezzare ogni cosa intera – […] – così ognuno potesse uscire dalla sua ottusa e ignorante interezza. Ero intero e tutte le cose erano per me naturali e confuse, stupide come l’aria; credevo di vedere tutto e non era che la scorza. Se mai tu diventerai metà di te stesso, e te lo auguro, ragazzo, capirai cose al di là della comune intelligenza dei cervelli interi. Avrai perso metà di te e del mondo, ma la metà rimasta sarà mille volte più profonda e preziosa. E tu pure vorrai che tutto sia dimezzato e straziato a tua immagine, perché bellezza e sapienza e giustizia ci sono solo in ciò che è fatto a brani». Sebbene pronunciata da una sola metà, è possibile affermare che questo simbolo di fede, questo programma metafisico e gnoseologico potrebbe risultare valido per entrambi. Infatti dimezzare il proprio sguardo sul mondo è tipico anche della parte sinistra del visconte.

            Cos’altro è dunque tale affermazione se non la più sentita e partecipe dichiarazione dell’assolutismo? Infatti, al di là di ogni segno politico, ogni contingenza storica e portata del fenomeno, l’assolutista si illude di possedere la conoscenza del mondo e l’illuminazione in grado di vedere oltre il velo degli inganni. È convinto che, scindendo le esperienze e decidendo di considerarne una parte limitata, possa raggiungere una consapevolezza potenziata e più acuta. Rifiuta il principio dialettico della realtà, dove per tentativi e ostacoli si cercano di carpire i semi del bene e della verità. L’assolutista gioca al ribasso, decide di pulire la vita degli elementi che non comprende, pensando così di capire tutto. In sintesi, se non rientra nei suoi parametri, non esiste. Ma, così facendo, si rende monco, dimezzato persino in se stesso; diventa miope a ciò che lo circonda e incapace di accettare le cose che accadono.

Inoltre tale miopia, come la storia di Calvino racconta, diventa pericolosa nel momento in cui decide di interagire con il mondo circostante: infatti Medardo è spinto dal desiderio di dimezzare le cose a sua immagine, renderle partecipi della distorsione ontologica che sta vivendo. Non riesce a tollerare la pienezza della verità, perché sa inconsciamente che metterebbe in crisi il proprio sistema di certezze di carta. Quindi taglia a metà i frutti e strappa un’ala a uccelli e pipistrelli. L’assolutista diventa violento per necessità. Non può rischiare di farsi fregare dalla potenza della realtà, perciò decide di intervenire in maniera preventiva. Ma ogni pera tagliata gli restituisce l’immagine deformata del proprio aspetto, lo fa soffrire di più; ama l’incompletezza e, al tempo stesso, la odia. Anche la parte buona del visconte ambisce a lasciare il proprio marchio nella natura (aggiusta le cose spezzate dall’altra metà) come se non riuscisse a accettare che la vita è anche fatta di sofferenza e delusione. Anch’essa compie violenza quando pretende di risolvere da sola tutti i problemi incontrati, fino all’annullamento di se stessa. Ne fuoriescono allora dei rammendi posticci che non sono capaci di arginare la ferita profonda che il male infligge alle cose. L’assolutista nel bene perde l’umiltà di riconoscere che non può salvarsi da solo. Entra in una dinamica idolatrica che è in grado di vedere solo ciò che vuole vedere.

In conclusione, l’assolutista tenta, senza riuscirci, di replicare l’assoluto; gioca goffamente a essere Dio con risultati dilanianti per sé e per gli altri. Non sono solo la storia o le grandi dittature politiche a insegnarcelo, ma è la realtà quotidiana. L’assolutista si nasconde in tutti quando pretendiamo che l’altro sia come noi vogliamo; quando ci dividiamo tra noi perché incapaci di accettarci nella diversità; quando sottomettiamo l’amore per l’altro a precise condizioni, perdendo la gratuità di un rapporto; quando dimezziamo i nostri sentimenti, relegando quelli che non apprezziamo in una zona inaccessibile di noi. Come uscire allora da questa dinamica? La storia del visconte ci indica la via di esodo attraverso la lotta.

Arriva il momento in cui la prepotenza dell’altra metà non può più essere tollerata e si decide per il duello all’ultimo sangue. In questo scontro mortale le due parti si ritroveranno a sanguinare in fin di vita, poiché la visione del mondo di uno ha tagliato quella dell’altro. Entrambi hanno combattuto in una condizione di assoluta parità, entrambi monchi e dimezzati. In un primo momento sembra che i due contendenti non vogliano colpirsi, facendo degli a-fondo nella parte vuota del mantello dell’altro. Infine le spade di entrambi vanno a compiere un unico taglio lungo il bordo della metà dell’altro, riaprendo i vasi sanguigni che erano stati chiusi con l’intervento medico. Dopo questo scontro epico il visconte si ritrova con le sue parti stese moribonde sul campo di battaglia. L’assolutista ha finalmente preso consapevolezza che non può esistere solo il suo punto di vista, ma che la realtà è molto di più. È spesso contraddittoria, variegata, multiforme; non la si può rinchiudere in una visione a senso unico, perché riesce a scardinare tutti gli schemi. Questo non significa che la realtà sia abitata dal non senso e dall’impossibilità di raggiungere una verità; ma che ognuno deve porsi nell’atteggiamento di resa alle cose, cercando, giorno per giorno, di camminare verso una conoscenza sempre più approfondita del reale, senza avere la pretesa di possedere la risposta per tutto. È necessario abbandonare le nostre punte estremiste e totalitarie, poiché, come la storia ci ha insegnato, possono dimezzarci e toglierci la bella fatica del confronto con l’altro. Essere noi stessi, sapendo che non siamo la risposta definitiva a tutto, ma parte di un grande corpo (umanità) che vive armonizzando le differenze. Ci è richiesto di essere noi stessi, ma capaci di aprirsi alle misteriose circostanze della vita: solo così il perfezionamento a cui inconsciamente tendiamo sarà sempre all’opera. Solo così saremo veramente e pienamente persone. Proprio come il visconte non più dimezzato: «Così mio zio Medardo ritornò uomo intero, né cattivo né buono, un miscuglio di cattiveria e bontà, cioè apparentemente non dissimile da quello ch’era prima di essere dimezzato. […] Forse ci si aspettava che, tornato intero il visconte, s’aprisse un’epoca di felicità meravigliosa; ma è chiaro che non basta un visconte completo perché diventi completo tutto il mondo».





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