Erano anni che non leggevo Il visconte
dimezzato; anzi, si può dire che è come se non lo avessi mai letto, dal
momento che non ne ricordavo la trama e i personaggi. È stata una lettura che
mi ha piacevolmente sorpreso per la sua freschezza e attualità, nonostante ci
separino dalla prima pubblicazione sessant’anni. Così è nata questa riflessione.
Spero di non travisare in maniera eccesiva il messaggio che lo stesso Calvino era
intenzionato a esprimere, poiché egli stesso afferma in un’intervista del 1983 a
degli studenti di Pesaro: «Io sono anche sempre molto attento ai significati:
bado a che una storia non finisca per essere interpretata in modo contrario a
come la penso io».
Il visconte Medardo di Terralba è tornato nelle
proprie terre dalla guerra in Boemia, dove una palla di cannone ha diviso a
metà il suo corpo. L’intervento medico sul campo sembrerebbe riuscito a salvare
solo una metà, sancendo la definitiva scissione tra la parte sinistra e destra,
tra bene e male. Il visconte che si ripresenta infatti a casa apprendiamo
essere la sua parte malvagia (la destra), che non tarda a compiere i suoi
misfatti in giro per la contrada. Tutti temono il battere inesorabile degli
zoccoli del cavallo che lo trasporta e vivono nel terrore che il loro signore
possa apparire e giocare qualche brutto tiro. Tuttavia in Terralba non tarda a
ritornare anche la parte buona (la sinistra), sopravvissuta anch’essa alla micidiale
cannonata. Da quel punto preciso della narrazione inizierà una guerriglia tra le
due metà, dove per ogni male compiuto una buona azione accorrerà istantanea a
rimediare. Una lotta senza quartiere tra le parti della stessa persona, tra due
assoluti che non sembrano disposti recedere di un millimetro dalle loro posizioni.
Se infatti la parte oscura di Medardo è l’incarnazione del male assoluto senza
redenzione, anche la parte buona non riesce a discostarsi dallo sguardo
estremista, seppur di segno contrario, che caratterizza la sua nemesi. Infatti
la sinistra del visconte è spinta al diniego assoluto di se stessa e alla rinuncia
più aspra pur di compiere quello che per lei rappresenta il bene assoluto.
Sebbene il lettore possa essere
portato a immedesimarsi e parteggiare per la parte buona di Medardo, permane
tuttavia una sensazione di incompiutezza in questo eroe contrapposto al lato
oscuro: c’è qualcosa nella sua bontà che stride con il buon senso e la
ragionevolezza. La sua abnegazione è qualcosa di slegato dalla realtà che lo
circonda; vive nel completo estraniamento dell’altro, non lo considera affatto,
tutta preoccupata a portare a compimento la propria visione del mondo. Ne è un
esempio l’episodio con gli ugonotti: il visconte propone a questa comunità di abbassare
il prezzo della segala che produce per aiutare i poveri del circondario,
arrivando alla svalutazione della merce. Un’azione lodevole, non c’è che dire:
eppure è fin troppo facile fare la carità con il portafoglio dell’altro.
Proprio per questo anche la parte buona di Medardo (come quella cattiva, ma per
altri motivi) viene bandita dalle terre ugonotte. Anche il bene può dare
fastidio. Dice Calvino nella medesima intervista agli studenti di Pesaro: «Alle
volte i buoni, le persone troppo programmaticamente buone e piene di buone
intenzioni sono dei terribili scocciatori».
A ben guardare allora entrambe le
metà di Medardo nascondono la stessa insidia: riducono la dialettica del reale
dentro i loro schemi di conoscenza, forzandola, piegandola e annullandola.
Emblematica, a tal proposito, è la confessione che il visconte malvagio fa al
nipote in riva al mare, mentre è impegnato nella pesca dei polpi: «Così si
potesse dimezzare ogni cosa intera – […] – così ognuno potesse uscire dalla sua
ottusa e ignorante interezza. Ero intero e tutte le cose erano per me naturali
e confuse, stupide come l’aria; credevo di vedere tutto e non era che la
scorza. Se mai tu diventerai metà di te stesso, e te lo auguro, ragazzo,
capirai cose al di là della comune intelligenza dei cervelli interi. Avrai
perso metà di te e del mondo, ma la metà rimasta sarà mille volte più profonda e
preziosa. E tu pure vorrai che tutto sia dimezzato e straziato a tua immagine,
perché bellezza e sapienza e giustizia ci sono solo in ciò che è fatto a brani».
Sebbene pronunciata da una sola metà, è possibile affermare che questo simbolo
di fede, questo programma metafisico e gnoseologico potrebbe risultare valido
per entrambi. Infatti dimezzare il proprio sguardo sul mondo è tipico anche
della parte sinistra del visconte.
Cos’altro è dunque tale affermazione
se non la più sentita e partecipe dichiarazione dell’assolutismo? Infatti, al
di là di ogni segno politico, ogni contingenza storica e portata del fenomeno,
l’assolutista si illude di possedere la conoscenza del mondo e l’illuminazione
in grado di vedere oltre il velo degli inganni. È convinto che, scindendo le
esperienze e decidendo di considerarne una parte limitata, possa raggiungere una
consapevolezza potenziata e più acuta. Rifiuta il principio dialettico della realtà,
dove per tentativi e ostacoli si cercano di carpire i semi del bene e della
verità. L’assolutista gioca al ribasso, decide di pulire la vita degli elementi
che non comprende, pensando così di capire tutto. In sintesi, se non rientra
nei suoi parametri, non esiste. Ma, così facendo, si rende monco, dimezzato persino
in se stesso; diventa miope a ciò che lo circonda e incapace di accettare le
cose che accadono.
Inoltre tale miopia, come la storia di Calvino
racconta, diventa pericolosa nel momento in cui decide di interagire con il
mondo circostante: infatti Medardo è spinto dal desiderio di dimezzare le cose
a sua immagine, renderle partecipi della distorsione ontologica che sta
vivendo. Non riesce a tollerare la pienezza della verità, perché sa inconsciamente
che metterebbe in crisi il proprio sistema di certezze di carta. Quindi taglia
a metà i frutti e strappa un’ala a uccelli e pipistrelli. L’assolutista diventa
violento per necessità. Non può rischiare di farsi fregare dalla potenza della
realtà, perciò decide di intervenire in maniera preventiva. Ma ogni pera tagliata
gli restituisce l’immagine deformata del proprio aspetto, lo fa soffrire di più;
ama l’incompletezza e, al tempo stesso, la odia. Anche la parte buona del
visconte ambisce a lasciare il proprio marchio nella natura (aggiusta le cose
spezzate dall’altra metà) come se non riuscisse a accettare che la vita è anche
fatta di sofferenza e delusione. Anch’essa compie violenza quando pretende di
risolvere da sola tutti i problemi incontrati, fino all’annullamento di se
stessa. Ne fuoriescono allora dei rammendi posticci che non sono capaci di
arginare la ferita profonda che il male infligge alle cose. L’assolutista nel
bene perde l’umiltà di riconoscere che non può salvarsi da solo. Entra in una
dinamica idolatrica che è in grado di vedere solo ciò che vuole vedere.
In conclusione, l’assolutista tenta, senza
riuscirci, di replicare l’assoluto; gioca goffamente a essere Dio con risultati
dilanianti per sé e per gli altri. Non sono solo la storia o le grandi
dittature politiche a insegnarcelo, ma è la realtà quotidiana. L’assolutista si
nasconde in tutti quando pretendiamo che l’altro sia come noi vogliamo; quando
ci dividiamo tra noi perché incapaci di accettarci nella diversità; quando sottomettiamo
l’amore per l’altro a precise condizioni, perdendo la gratuità di un rapporto;
quando dimezziamo i nostri sentimenti, relegando quelli che non apprezziamo in
una zona inaccessibile di noi. Come uscire allora da questa dinamica? La storia
del visconte ci indica la via di esodo attraverso la lotta.
Arriva il momento in cui la prepotenza
dell’altra metà non può più essere tollerata e si decide per il duello all’ultimo
sangue. In questo scontro mortale le due parti si ritroveranno a sanguinare in
fin di vita, poiché la visione del mondo di uno ha tagliato quella dell’altro.
Entrambi hanno combattuto in una condizione di assoluta parità, entrambi monchi
e dimezzati. In un primo momento sembra che i due contendenti non vogliano
colpirsi, facendo degli a-fondo nella parte vuota del mantello dell’altro. Infine
le spade di entrambi vanno a compiere un unico taglio lungo il bordo della metà
dell’altro, riaprendo i vasi sanguigni che erano stati chiusi con l’intervento
medico. Dopo questo scontro epico il visconte si ritrova con le sue parti stese
moribonde sul campo di battaglia. L’assolutista ha finalmente preso consapevolezza
che non può esistere solo il suo punto di vista, ma che la realtà è molto di
più. È spesso contraddittoria, variegata, multiforme; non la si può rinchiudere
in una visione a senso unico, perché riesce a scardinare tutti gli schemi.
Questo non significa che la realtà sia abitata dal non senso e dall’impossibilità
di raggiungere una verità; ma che ognuno deve porsi nell’atteggiamento di resa
alle cose, cercando, giorno per giorno, di camminare verso una conoscenza
sempre più approfondita del reale, senza avere la pretesa di possedere la
risposta per tutto. È necessario abbandonare le nostre punte estremiste e totalitarie,
poiché, come la storia ci ha insegnato, possono dimezzarci e toglierci la bella
fatica del confronto con l’altro. Essere noi stessi, sapendo che non siamo la
risposta definitiva a tutto, ma parte di un grande corpo (umanità) che vive
armonizzando le differenze. Ci è richiesto di essere noi stessi, ma capaci di
aprirsi alle misteriose circostanze della vita: solo così il perfezionamento a
cui inconsciamente tendiamo sarà sempre all’opera. Solo così saremo veramente e
pienamente persone. Proprio come il visconte non più dimezzato: «Così mio zio
Medardo ritornò uomo intero, né cattivo né buono, un miscuglio di cattiveria e
bontà, cioè apparentemente non dissimile da quello ch’era prima di essere
dimezzato. […] Forse ci si aspettava che, tornato intero il visconte, s’aprisse
un’epoca di felicità meravigliosa; ma è chiaro che non basta un visconte completo
perché diventi completo tutto il mondo».
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