Alessandro Ramberti, Medèla. Abbecedari in quarta tonica, Fara Editore, Rimini, 2021.
recensione di Gianpaolo Anderlini
Il titolo: Medèla.
Il sottotitolo: abbecedari in quarta tonica.
La premessa: indispensabile per entrare nel cuore pulsante di questa opera poetica, vibrante e profonda, di Alessandro Ramberti.
Se non si legge la premessa e non si consulta il Vocabolario degli Accademici della Crusca il titolo “Medèla” rimane un’incognita velata di mistero. È voce rara e antica, oggi non più usata come è detto nella quinta ed ultima edizione di quel Vocabolario:
“Sost. femm. Medicina, Medicamento; ma è voce che non si userebbe se non in poesia od in nobile scrittura.”
Perché Medèla?
Nella premessa l’Autore chiarisce l’arcano:
“Medèla è colei che si prende cura di qualcuno, la dose di medicina per guarire. Etimologicamente è connessa alla radice latina med- (sistemare, curare). È un attributo di Maria in alcuni inni medievali. Anche la poesia, e in genere la letteratura, può essere “medicamentosa” quando vi troviamo parole che scavano e al contempo riparano le grotte del cuore.”
Medèla è insieme la poesia e Maria; entrambe guariscono e ci sorreggono, ma forse Maria è la poesia del tempo, è il luogo in cui la Parola si fa carne e ci abita, è la parola che si fa risposta, è il “sì” definitivo dell’uomo a Dio:
“nome che si apre alla luce
diventi madre-nel-tempo di Dio
tu sei medèla attenta e discreta
curi ed ascolti-magnifichi.” (p. 50)
Procediamo con ordine.
Se la poesia è medicamento e se produce “parole che scavano e al contempo riparano le grotte del cuore”, è alla poesia che dobbiamo rivolgerci per ritrovare le strade del nostro cuore e per fare uscire al sole ciò che rischia di rimanere nel segreto e di generare dolore per il quale la parola si fa medèla, medicamento interiore che viene da lontano e che ci porta lontano.
Ma perché la parola si faccia rete capace di cogliere “il fuoco / parlante del roveto” (p. 8), occorre un codice specifico: un abbecedario, come è detto nel sottotitolo.
Abbecedario e non alfabeto.
Abbecedario richiama, a chi ormai è vecchierello canuto e stanco come chi scrive, memorie di scuola elementare, ricordi di letture fanciullesche (l’abbecedario di Pinocchio in primo luogo). Oggi si direbbe alfabetario o alfabetiere, ma abbecedario ha qualcosa in più che si prolunga in quattro lettere del nostro alfabeto e lascia il richiamo ad altri alfabeti e ad altre lingue.
Alfabeto è la lingua ed il linguaggio; le lingue altre.
Abbecedario è la lingua madre e, nel caso del poeta, il suo idioletto.
Abbecedario è anche, come lo era per i remigini, l’inizio di un percorso, forse a ritroso forse proiettato oltre.
Abbecedario porta ad alfabeto, alfabeto conduce ad alfa-beta, alfa-beta ci porta ad alef-bet, alef-bet (chiave della lingua santa) ci apre le parole della creazione, del roveto ardente, del monte Sinài, di Maria, di Gesù di Nazaret.
Come senza abbecedario non si impara a leggere e a scrivere, così senza l’alef-bet non si scruta la parola/davàr, quella parola che ci ha parlato e che continua a parlarci anche in questo abbecedario che si fa alfabeto e progressivamente alef-bet.
Sorprendentemente (o forse no) in Medèla, come precisa l’Autore, due sono gli abbecedari (e non gli alfabeti!):
“Queste pagine contengono un abbecedario di 26 lettere a tema libero e con una forma chiusa, e uno di 21 lettere dedicato a nomi presenti nella Bibbia, con una struttura più sciolta.” (p. 7)
Se l’alfabeto è una serie chiusa e un mero elenco di fonemi e di grafemi, l’abbecedario è l’insieme di tutto ciò che ci consente di entrare in una lingua e in linguaggio, è l’exemplum che si fa exemplar.
Se è così, allora perché due abbecedari?
Il primo di 26 lettere corrisponde, per così dire, all’abbecedario della scuola elementare, dalla A alla Z. È il viatico che dischiude la possibilità della parola, della poesia, del verso, là dove “piste-di-luce nascoste / mostrano vie da scalare” (p. 11).
Il secondo di 21 lettere si mostra, invece, apparentemente come un abbecedario difettivo (mancano le lettere: J, K, W, Y, X), in realtà è quello che potremmo definire l’abbecedario primario senza quelle lettere che non sono fonemi e grafemi della lingua madre. Ma se è questa sorta di abbecedario primario, lo è perché ci parla d’altro: non di parole ma di nomi, nomi di persone in primo luogo, che riempiono l’orizzonte dei due testamenti della Bibbia, delle due Bibbie (quella ebraica e quella cristiana) che si fanno una nel susseguirsi di quei nomi che si intersecano, si richiamano e si completano, gettando una rete che raccoglie anche i nomi presenti nel primo abbecedario.
Ma se questo abbecedario primario ha lo scopo di portarci lungo il flusso delle parole, della preghiera e della meditazione, all’alef-bet senza cui non c’è la Parola/davàr, si presenta doppiamente difettivo: 21 lettere e non più 26, ma nemmeno 22 come sono le lettere dell’alef-bet ebraico.
Azzardo un’ipotesi interpretativa che certamente va oltre (e certamente tradisce) il pensiero dell’Autore ma che è segno della sensibilità del lettore che nelle parole scritte legge sé stesso e le ruba all’autore e con lui (o senza di lui) le riscrive.
Qual è la lettera che manca o, meglio, la lettera soggiacente?
È la lettera J, jod in ebraico, la lettera iniziale del Tetragramma sacro (JHWH) e in ebraico, in aramaico e nel latino ecclesia sito, del nome Gesù (Jehoshùa‘/Jeshùa‘/Jesus). È la lettera più piccola dell’alef-bet, un apice posto in alto a destra, un segno che al confronto degli altri sembra minuscolo ed insignificante, ma senza il quale il mondo non può reggersi.
È quella lettera iota di cui parla Gesù nel Vangelo:
“In verità vi dico: finché non siano passati il cielo e la terra, non passerà un solo iota o un solo apice della Legge, senza che tutto ciò sia compiuto.” (Mt 5,18)
Se davvero questo di 21 lettere è un abbecedario difettivo, una volta data la mia interpretazione, lascio agli altri lettori (e, se vuole, anche all’Autore) il compito di trovare la propria lettera mancante o di considerare questa mia interpretazione tanto inutile quanto non pertinente.
Aggiungo solo che la parola quando si fa poesia ci pone di fonte a noi stessi e all’Altro e allora:
“sei interrogato un uncino
è penetrato all’interno
gemi angosciato e comprendi
quanto ci attiri l’eterno.” (p. 18)
Io penso (e ne sono convinto) che l’eterno sia in quella lettera mancante: la yod, perché solo un sillabario difettivo può aprirsi all’eterno.
Facciamo un passo avanti.
La poesia è poesia anche (e soprattutto) perché è forma e suono, come direbbe Paul Valéry: “Le poème - cette hésitation prolongée entre le son et le sens”.
L’Autore lo dichiara nel sottotitolo (“in quarta tonica”) e nella premessa:
“I versi di entrambi i sillabari hanno un accento importante sulla quarta sillaba che funge da cardine di ritmo e di senso.” (p. 7)
E poi aggiunge:
“La poesia dovrebbe essere sempre pronunciata, anche solo a basa voce, perché i movimenti legati all’emissione del suono rafforzano il ‘senso’ e fanno vibrare l’aria dentro e fuori di noi rendendoci strumenti musicali dal timbro unico.” (pp. 7-8).
Musica.
Suono.
Respiro.
Voce.
Ritmo.
Forma.
Un mare che si apre all’infinito.
Due parole sul ritmo e sulla forma.
Entrambi gli abbecedari presentano poesie in una forma definita: sette versi in due terzine seguite da un verso di chiusura. In entrambi i sillabari il ritmo si fonda su un accento ritmico forte in quarta posizione; ma, come già evidenziato sopra con le parole dell’Autore, il primo sillabario presenta una forma metrica chiusa ed il secondo aperta.
Vediamo qual è la specificità del primo sillabario.
Le ventisei poesie sono composte da ottonari caratterizzati dall’accento ritmico determinante in settima posizione e da un accento particolarmente forte in quarta posizione anziché in terza come vorrebbe la metrica tradizionale. Il ritmo che si crea va oltre lo schema dell’ottonario e tende a trasformare un verso parisillabo in un verso imparisillabo, con alternanza di ritmo discendente dattilico e di ritmo discendente.
Un esempio di ritmo discendente dattilico (1-4-7):
“Bràncoli a lùngo sul pònte
mùsica agli òcchi è l’affòndo
tièniti fòrte resìsti” (p.12)
Il ritmo ternario/dattilico è evidente tanto da avvicinare tale struttura dell’ottonario al decasillabo regolare (3-6-9) con cui condivide la regolarità della cadenza degli accenti ritmici che si susseguono ogni tre posizioni ritmiche.
Un esempio di ritmo ascendente (in prevalenza 2-4-7):
“attènto a quèl che non sèi
ti spìnge fuòri dal mùro
che non và òltre l’adèsso
e rèsta sòlo al futùro.” (p. 19)
Il ritmo ascendente si presenta più vario, con prevalenza giambica nella prima parte del verso, e introduce una variazione ritmica che fa da contrappunto al martellante ritmo discendente dattilico e in diverse poesie scioglie ed allenta la tensione prosodica creata dal ritmo dattilico.
L’ultima citazione, tratta dai versi finali della lettera “I”, ci consente di mettere in evidenza un altro elemento strutturale delle composizioni poetiche del primo sillabario: la presenza di una rima, che potremmo definire incatenata, tra il quinto, cioè il secondo della seconda terzina, e il settimo verso (nell’esempio citato: mùro/ futùro).
Il secondo abbecedario è composto da ventuno poesie che conservano la struttura dei sette versi (due terzine più verso di chiusura), precedute da un prologo “lungo”, formato da tre serie di sette versi. I versi hanno forma più libera, con buona presenza di ottonari, e tutti, qualunque sia la loro struttura prosodica, conservano l’accento ritmico in quarta posizione.
La rima tra il quinto e il settimo verso compare solo sporadicamente. La si ritrova solo nelle tre serie del Prologo, in “Andrea” e in “Giovanni”.
Si ha come l’impressione che il primo abbecedario sia una sorta di apprendistato umano e poetico e che, come tale, esiga una forma chiusa, mentre il secondo si presenta nel segno di una libertà progressivamente conquistata che si fa parola che segue il ritmo del pensiero, della meditazione e della fede ora matura.
Tutto è parola.
Nella prima parte Dio non compare come nome; è presente nell’eterno e nel divino: è il Principio (p. 14); è il Chi mai / non abbandona i suoi figli – Adonai (p. 20); è il Kyrie che scende agli inferi (p. 21).
Nella seconda parte Dio si fa protagonista: è il Dio/Emmanuele (p.42); è il Dio dei padri (p. 44); è il Dio a cui si offrono Isacco ed Abramo (p. 48); è il Dio che si fa carne in Maria, “madre-nel-tempo di Dio” (p. 50); è il Dio che concede il perdono a Davide (p. 51); è il Dio paziente pronto ad accogliere (p. 52); è il Signore che può ciò che l’uomo non può (p. 56); è il Sofferente che ci riscatta (p. 59); è Colui che ritorna a Gerusalemme, la città/mondo (Zc 1,16) e che la fa il luogo per accogliere tutte le nazioni (p.60).
Tutto è parola, in due abbecedari.
Il primo abbecedario ci lascia in sospeso perché si presenta come un esemplificazione di ogni singolo grafema a partire dalla prima lettera della prima parola.
A = “apri”. B = “brancoli”. C = “costantemente”. D = “dedicazione”. E = “eccoti”. F = “festa”. G = “godi”. H = “hanno”. I = “io”. J = “Jerushalàim”. K = “Kyrie”. L = “lemure”. M = “medico”. N = “nuova”. O = “ordinazione”. P = “parcellizzare”. Q = “quatto”. R = “risorse”. S = “stupenda”. T = “tasti”. U = “uniamo”. V = “vasti”. W = “welfare”. X = “xenobionti”. Y = “ypsilon”. Z = “zaino”.
Si va da “apri” a “zaino”, dalla scatola da aprire al vento per fare volare la parola al fardello pesante che ci accompagna ma che può divenire leggero quando, chiusi nel pozzo della disperazione, come lo fu Giuseppe per mano dei fratelli, si trova spingendo lo sguardo in alto un occhio che ci scruta e (forse) ci salva.
Un solo nome proprio: Jerushalàim, il luogo della presenza divina; il luogo che ritorna, non nominato, nell’ultima poesia del secondo abbecedario, che ha forza particolare perché chiude la raccolta.
Un solo nome divino: il vocativo Kyrie, “o Signore”, rivolto al Cristo il cui corpo è nel sepolcro e che discende agli inferi.
Un sola corrispondenza col nome di una lettera: ypsilon, il bivio-forcella che separa ed unisce.
Una sola parola, in qualche modo, “aliena” che ci smaschera: è quello xenobionti, che ci qualifica come forma di vita estranea sul nostro stesso pianeta “che senza cura sfruttiamo / rendendo gli umili oggetti” (p. 34).
Una sola parola che ci ricorda che l’uomo è un animale politico e sociale: welfare, l’“andare con gli altri / in empatia condivisa / con chi con noi è sulla strada”(p. 33).
Il secondo abbecedario si fa storia di nomi propri presenti nella Bibbia, annunciati e pronunciati nel titolo.
A = “Andrea”. B = “Betsabea”. C = “Cesare”. D = “Daniele”. E = “Ester”. F = “Faraone”. G = “Giovanni”. H = “Hermon”. I = “Isacco”. L = “Lazzaro”. M = “Maria”. N = “Natan”. O = “Osea”. P = “Paolo”. Q = “Qohèlet”. R = “Ruth”. S = “Sara”. T = “Tommaso”. U = “Uria”. V = “Veronica”. Z = “Zaccaria”.
Tutti i nomi-titolo, con l’esclusione del terzo (Cesare), sono una sorta di vocativo o di chiamata a testimoniare, in quanto il testo poetico li definisce, nel loro essere quello che sono, alla seconda persona, “tu”.
Due nomi, pur presenti nel contesto biblico, sono fuori dal popolo di Dio: Cesare e Faraone.
Un nome è un monte: il monte Hermon (secondo alcuni il monte della Trasfigurazione).
Sette nomi sono legati al Secondo Testamento, i rimanenti undici al Primo e questa prevalenza è in qualche modo significativa.
Ogni nome una storia e un cammino.
Ogni nome è un gradino che ci fa comprendere chi siamo noi e chi è Dio; per dirla con le parole di Marco Pozza, poste in esergo al secondo abbecedario: “Volontà di Dio è che l’uomo accetti che Lui faccia cose per noi, non che noi facciamo cose per lui. (…) Affare dell’uomo è pregare, affare di Dio è salvare” (p. 38).
La poesia, allora, è la presa di coscienza di ciò che siamo di fronte a noi stessi e di fronte a Dio; il nostro vivere deve divenire riflesso dell’ascoltare (ancora e sempre) l’eco della voce della sua parola per divenire suoi testimoni; per farci strumento di pace e di amore per lui, in lui e con lui.
Quando non saremo più schiavi del nostro misurare gli altri e il mondo col metro della ricchezza e del potere, quando sapremo risollevare gli umili ed accogliere la sofferenza di chiunque, allora riusciremo, una volta percorsi i gradini che ci riportano a lui, ad aprire definitivamente la porta a Colui che “discretamente bussa ed attende” (p. 42). Qui si dice una verità che cambia l’ordine della fede e della speranza: non siamo noi che attendiamo Lui è Lui che attende noi.
Nell’attesa che questo si compia, possiamo trovare la nostra cura e il nostro sostegno, la medèla che ci libera dal peso degli errori e del vano errare, nella poesia e in Maria.
Due abbecedari.
Poesia, il primo; Maria, il secondo.
Due strade che sembrano divergere ma che si congiungono come nella lettera ipsilon.
In conclusione, un itienerarium mentis, animae et corporis in Deum per poesin et per Mariam.
Buona lettura e buona (ri)scrittura, perché (parafrasando Gregorio Magno) Poesis aliquo modo cum legentibus crescit.
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