mercoledì 18 novembre 2020

Sulla foce del fiume del caos

 recensione di Gianpaolo Anderlini

al libro di Matteo Pasqualone

Ogni nascita è dal caos, Fara, Rimini, 2020



Quando si legge un libro, di poesia in particolare, si è trascinati dal flusso carsico di parole-chiave che ritornano e si rincorrono come se fossero l’eco di risonanze, consce ed inconsce, che l’autore ritrova in ogni anfratto del suo scrivere e che quasi lo ipnotizzano come il suono di tamburi lontani che, all’improvviso o ad ora incerta, coprono il rumore di fondo che tutto ottunde.

Matteo Pasqualone è cosciente di questa forza trascinante e incontrollata dello scrivere e già dal titolo del libro ci indica quella che per lui è la parola chiave da cui sembrano dipendere la vita e il mondo, il nascere e il morire: caos. Nelle ventidue poesie la parola compare otto volte nel testo e due nei titoli, a partire dalla poesia eponima che apre la raccolta: Ogni nascita è dal caos.

Diciamolo con le parole dell’Autore:

 

“Ogni nascita è dal caos, dice la bibbia:

- intendiamoci – non sono queste le parole

che si è soliti trovare nel grande codice;

quel che cerco di ridire è un concetto essenziale

senza il quale è impossibile capire

che l’amore mette ordine dove c’è desolazione.”

(Ogni nascita è dal caos, vv. 1-6)


Fin dal primo verso della raccolta appare evidente quale sia l’orizzonte di senso che guida l’inanellarsi dei pensieri e il rincorrersi delle parole. È la Bibbia, il Grande codice dell’Occidente, a definire le coordinate di ciò che è detto e ciò che non lo è, a determinare il profilo dell’attesa e della speranza, di ciò che si è e di ciò che si dovrebbe essere. E, in particolare, sono le parole di Genesi 1-3 a dirci cosa siano il caos e il senso della nascita. Se la creazione del mondo è l’emergere dall’acqua primordiale, dal caos indistinto del nulla e del non ancora, la nascita è l’uscita dalle acque uterine, dal “caos delle viscere”, nel dolore del parto che genera la vita e e la consegna all’eternità. Dolore che non è la condanna per “la colpa antica” di Eva, ma il peso insopportabile del creare e del dare vita; forse è lo stesso dolore del Dio che si contrae e lascia posto al mondo che continua nella genesi continua della vita immersa in un mondo che (forse) non è mai uscito o non può uscire dal caos e che tende a ritornare a un nuovo caos che ancora non ci mostra il suo vero volto. Del resto, genesi è nascita, e tutto per il Nostro è nascita e rinascita, fluire e rifluire, cercare e perdere, dire e tacere; fiume che va e ritorna al mare, verso la foce che attira e che respinge, per perdersi in quelle acque (non le stesse dell’inizio ma quelle che ci attendono dall’inizio) su cui (è la speranza a dircelo) “lo spirito di Dio/venga a danzare leggero”1 (p.19).

Che cos’è il caos?

Innanzitutto bisogna precisare che non è parola biblica, è parola greca che prova a dire (mi consenta l’Autore l’azzardo) “in lingua barbara dal suono sgradevole” (p. 19), l’indicibile ed è essa stessa il vuoto vano che rappresenta. Quando il poeta (e nessun altro può farlo) prova a dire il caos, incespica nel nulla e rivela che, una volta nati, la nostra condizione è dal caos “che alberga oscuro nel profondo” (p.19). Ma l’indicibilità del caos non è una condanna irrevocabile al nulla ed all’inane volgersi dei giorni, perché c’è, nascosta in ogni piega del nostro vivere e del nostro andare alla foce, una parola che ci chiama altrove:


“Risuona nella vita di ognuno la parola

che riporta l’ordine dove c’era il caos;

alle sue sponde scendo a dissetarmi

e nel riflesso quieto ricompongo con dolore

i pezzi del mio specchio infranto,

carpisco l’eco del mare dove un giorno

l’arido fiume delle mie paure

si innesterà vigoroso dalla foce”

(Il filo di Arianna, pp. 26-27).


La parola che riporta ordine come acqua che disseta, la parola che è eco del mare che ci attende oltre la vita ed oltre la morte, apre la vita all’imprevisto che bussa alla nostra porta ad ora incerta, come direbbe Primo Levi, e con insistenza per mettere disordine (non caos) o meglio un nuovo ordine in una vita “dove ogni cosa è nel suo scaffale” (p.24):


Vegliate, dunque, perché non sapete

né il giorno né l’ora in cui lui busserà

ricordando il principio ormai sopito,

certezza incrollabile di ogni viandante:

noi non ci apparteniamo.”

(L’imprevisto, p. 24)


Il detto evangelico di Matteo 25,13 è la chiave per comprendere come l’imprevisto sia l’opportunità che ci è offerta per aprire la porta all’Altro che bussa, pronti ad accogliere ciò che ci farà nascere alla vita, quella vera. L’imprevisto è, allora, l’altro che ci incontra, la mano e il volto del divino che si “farmaco della grazia” (p. 25), scardina la porta, entra, irrompe “come vento robusto che l’intimo squaderna” (p. 25), come “sana sberla divina” (p. 25) che frantuma gli idoli a cui abbiamo consegnato la nostra vita.

Ecco, allora, che la grazia, come frutto di gratuità che ci rincorre e attende la nostra risposta, attua in noi la promessa che ci è consegnata dalle parole del profeta Ezechiele2:


“Tremate cuori di pietra chiusi all’imprevisto!

La grazia trapianterà in voi un cuore di carne

senza preavviso, senza la dovuta anestesia:

con dolore cambierai lo sguardo scoprendo

per la prima volta che non sei vissuto.”

(Irruenza, p. 25)


Vivere è lasciarsi squadernare dall’imprevisto, aprire la porta del cuore per scoprire che ora può battere nel segno di una vita che finalmente è viva e vivibile, e che ci mostra il tesoro nascosto nel campo che fino ad allora non si era mai cercato o che, semplicemente, non si riconosceva come tesoro per cui valesse la pena spendere se stessi e le proprie energie:


“sei altro, lo vedo, sei altro, volto unico

e prezioso, tesoro nascosto nel campo

per il quale vale la pena investire

ogni debole atomo del mio essere.”

(Altro, p. 28)


Colui che bussa alla nostra porta rimane, sempre e comunque, l’Altro. È lui che ci cerca (Dio in cerca dell’uomo). È lui che ci ama per grazia. È lui che ci dona la fede. È lui che ci mostra la vita vera. È lui che non ci abbandona anche quando continuiamo ostinatamente a tenere chiusa la nostra porta forse perché schiavi del nostro ordine che ci fa galleggiare vuoti nel caos, forse perché non riconosciamo un altro da noi e non siamo (più) capaci (o forse non lo siamo mai stati) di accogliere l’Altro fuori di noi.

Io mi basto.

Sembra dire l’uomo avviluppato negli scaffali ordinati della propria stanza.

Io non apro.

Urla, rivolto al proprio ombelico, chi tenta di negare di essere chiamato altrove.

Io non senso bussare.

Ripete, davanti allo specchio rotto dei propri fallimenti, chi non ha altro idolo che se stesso. Allora, uomo, hai orecchie, ma non puoi ascoltare; hai bocca, ma non puoi parlare; hai… e non sei nulla!

Ci guida fuori dall’illusione di essere insieme noi e l’altro o di essere noi senza l’altro, lo sguardo rivolto all’altro che sappiamo che sta in attesa al di là dell’uscio e che, anche se continuiamo ad essere sordi, non smette di bussare, anche se continuiamo a non aprire:


“Continua a bussare al mio uscio,

non smettere di cercarmi, mostrami

nuove sfumature, metti sottosopra

i miei scaffali di certezze accumulate

non permettere che io mi specchi in te

con l’arrogante pretesa di riconoscermi

perché tu, per grazia, sei altro,

altro da me, altro oltre me.”

(Altro, pp. 28-29).

Cosa aspettiamo allora ad aprire la nostra porta e a dire all’Altro/altro: entra?

È l’orizzonte piatto della nostra vita che non conosce ancora la forza travolgente dell’imprevisto, “la benedetta fatica di rimettersi sempre in gioco” (p. 30); ma come la nostra nascita è dal caos in quanto siamo figli non ancora coscienti di essere parte della costellazione famigliare, così accogliere la vita di un figlio ci obbliga ad aprire quella porta che non volevamo aprire a cui ora bussa (inconsapevole) questo “muto mistero tonante” che travolge e sconvolge la quotidianità riempiendola di nuovo senso. E se è vero che “i piccoli sono la misura dell’essere” (p. 34) e che “la misura del più piccolo trasfigura il mondo” (p. 35), tu, uomo, non sei più quello che eri prima o solo quello che eri prima, tutto (anche la più piccola e banale faccenda quotidiana) si riempie di un contenuto, di un colore e di un sapore inaspettati e allo stesso tempo secondo la natura vera delle cose della vita:


Fai tutto questo, ma non sei più tu

che lo fai, sempre tu, ma irrimediabilmente

diverso: prima che uomo, sposo,

più in profondità di uomo, babbo –“

(La misura del più piccolo, p.35)


Di fronte al piccolo, che è la misura della protezione e della cura necessaria e non contrattabile, il babbo che comincia a farsi padre scopre come il cammino di crescita sia condivisione ed accettazione perché la forza vitale di quel piccolo figlio da una parte rompe la catena del pregiudizio che ci spinge a credere che ogni figlio sia prima o poi quello che fu il figliol prodigo della parabola evangelica, e dall’altra amplifica la luce nuova e antica che ogni piccola creatura irraggia nel mondo:


“Sincero ridi, intrepido sfidi, con forza piangi,

scaltro ottieni, vivi con passione

ogni istante di veglia, talvolta prolungandola

alle silenziose ore notturne, cantando

con l’innocenza che ti è propria

la supremazia della vita su qualunque odio.”

(Muto mistero tonante, pp. 30-31)

Questo basterebbe come viatico per ciascuna piccola vita che giorno dopo giorno cresce e si fa un po’ più grande, ma in questo rapporto simbiotico che lega il padre al figlio, non come vincolo genetico ma come imperativo morale a cui il padre non può e non deve sottrarsi, c’è la richiesta continua e pressante di una dedizione sovrabbondante che promana da quello sguardo da cui nessun padre (se veramente è tale) può sfuggire, da quegli occhi che sono “scintille che ammantano la vita/ di stupore “ (p. 32). Allora, padre, di fronte a quegli occhi assetati d’infinito non essere come un maestro che dispensa insegnamenti ma acqua pura e limpida che, con amore e per amore, li disseta:


“Dissetali, finché sei in terra! Provaci!

Dividi con loro anche la tua razione,

non nasconderti dietro ai fantasmi,

fatti bere avidamente senza riserve,

non preoccuparti delle impurità – a loro non interessa –

fatti bere e amare così come sei,

non temere quello sguardo: ti restituirà

la vita che tu stesso gli hai donato.”

(Non sfuggi allo sguardo, pp. 32-33)


E il babbo si fa definitivamente padre (così come Dio da creatore si fa padre) nel trittico che, ancora una volta, ci immerge nella prospettiva biblica: generare, custodire, servire.3

Essere padre è, in primo luogo, generare. La vita che nasce è una sorgente che sgorga tra le “rughe di pietra” dalla montagna che, per la sua pendenza, “non trattiene a sé il fiume” (p. 39) ma lo lascia fluire e


“[…] accompagna/

quel singulto d’acqua a compimento,

alla foce impetuosa della realtà, nel mare

di una vita dagli ampi orizzonti”

(Il padre – I – Generare, p. 39).


Generare è aprire alla vita e lasciare che la vita che nasce vada libera al suo compimento. Generare non è mai trattenere o limitare. Il vero padre è un montagna, terra e cielo insieme, e come quella montagna può solo accompagnare l’acqua che scende a valle.


Il custodire, invece, riposa nello sguardo del guardiano che, dalla finestra più alta della torre che domina la valle, veglia durante le lunghe ore notturne, “presidio e custode del villaggio addormentato” (p. 40). Schiacciato al peso del buio e dal sonno vorrebbe abbandonare la torre e rifugiarsi in casa per “sentirsi custodito/dall’orrore della notte” (p. 40). Resiste, l’ora dell’attesa interminabile passa e finalmente il tempo si accorcia e discende verso l’alba.

E allora:


“La luce vince il timore del caos notturno,

dà ordine alle cose, tutto riacquista senso;

solo allora il custode della torre capisce

- ripensando alla sua notte interiore –

di essere per molti l’abbraccio paterno che cercava.”

(Il padre – II – Custodire, p.41)


E terzo (nell’ordine testuale solamente) viene il servire che con litote ripetuta mostra la vera dimensione della paternità: “Non è facile servire…”, “Non è per niente facile servire…” (p.42). Non è facile darsi, tutto e con tutte le forze, ai bisogni dell’altro e non è per niente facile abbandonare il proprio orgoglio perché, ancora con ascendenza biblica: “l’idolo dai piedi fragili si frantuma/ una voce tonante prende il suo posto” (p. 42).

Il servire fa sì che l’uomo, ora padre, smetta di essere “incapace di vedere oltre se stesso” (p. 42), e trovi (in quel prorompere inatteso) la forza per avanzare, pur nel quotidiano arrancare, nel cammino che lo porta a divenire ciò che si è o si dovrebbe essere sotto un cielo che è lo stesso anche se è popolato di nuove costellazioni:


“Al di là dei tempi disarcionati,

delle aritmie di prassi certe,

progetti rinviati, mutazioni di rotta

imposte da nuove costellazioni,

servire è diaconia d’amore.”

(Il padre – III – Servire, p.43)


Cos’è diaconia d’amore?

È lo scoprire che servire è il grado più alto d’amore in quanto porta nel contesto del vissuto quotidiano il carisma del dono e la priorità assoluta della cura disinteressata; è il padre che nella sua relazione col figlio si fa, secondo la prospettiva degli Atti degli Apostoli, diacono, e, così facendo, fonda quel rapporto non sulla filiazione genetica ma sul dono gratuito e sulla cura amorevole che trasformano il nucleo famigliare in una piccola chiesa o, meglio, nel luogo in cui abita Dio, fonte di ogni amore.

Diaconia (mi perdoni l’Autore) mi suggerisce un gioco di parole.

Lettore, non leggere “diaconia”, leggi “diacronia”.

Ed ecco che quella consonante epentetica, aggiunta nel bel mezzo della parola, apre una doppia porta che illumini entrambi i lati del vettore che determina la direzione dell’amore.

Nel rapporto padre-figlio l’amore si dà senza soluzione di continuità nello spazio del tempo (dià-kronos). Non c’è momento in cui il padre non possa e non debba amare il figlio di quella gratuità che in terra sembra il riflesso dell’amore che su di noi scende dai Cieli.

Nel rapporto figlio-padre l’amore, che si fa parola diversamente articolata nelle varie stagioni del crescere, si mostra a suo tempo con sfasature che possono trarre in inganno perché non siamo stati educati a intendere che quello del figlio è amore diverso, o di altro segno, rispetto all’amore del padre.

Nel rapporto figlio-padre l’amore, che si fa parola diversamente articolata nelle varie stagioni del crescere, si mostra a suo tempo con sfasature che possono trarre in inganno perché non siamo stati educati a intendere che quello del figlio è amore diverso, o di altro segno, rispetto all’amore del padre.

Quest’amore - del figlio, intendo – si fa pietas (e del resto l’Enea della poesia richiama, per atavica memoria scolastica, l’altro Enea) e perdono perché qualsiasi padre prima o poi dovrà fare i conti con la distopia dell’amore perché il figlio non è dell’amore ricevuto che aveva bisogno, perché tra chi dà amore e chi chiede amore c’è sempre una differenza di parallasse che sposta la prospettiva. Il buon padre, allora, è colui che sa tendere il proprio sguardo verso quello del figlio e il buon figlio è colui è capace di tornare a vedere il padre con gli occhi di bambino per giocare nella stessa stanza. Troppo spesso la vita ci conduce a giocare in stanze diverse con l’illusione di fare la cosa giusta oppure (quel che peggio) a tenere rinchiuso l’altro in una stanza in cui mai vorrebbe stare ma da cui non riesce o non gli è possibile uscire. Ad alcuni è dato di ritrovarsi qui ed ora, ad altri nella distanza finale ed estrema che avvicina perché non ha possibilità di replica e non offre via di ritorno:


“Hai preso in braccio quel corpo antico

ormai solo un involucro di stracci

lacero e contuso, leggero eppure come

un montagna, senza negare la fatica

del gesto, i dolori non detti, la guerra

interiore che ti consuma la carne

così a lungo martoriata da quello

che ora sembra esser un nulla”

(Il perdono di Enea, p. 36)


Di fronte al mistero del copro morto tutto si fa finalmente pietas e, se necessario (e non è mai troppo tardi), perdono: “eppure perdoni e il passo si affretta/ verso il porto di una nuova vita” (p.36).

Se ogni nascita è dal caos perché è dall’acqua che viene, anche la morte è dal caos (di altra natura, certo, ma sempre caos, forse calmo è non più tempestoso) perché ci consegna finalmente all’acqua del mare, là dove tendono le acque dolci che lottano con ogni mezzo per giungere alla foce che fino a quel momento non le ha accolte:


“Sulla soglia del distacco ci saremo detti tutto,

la parola svanirà nei ruggiti della foce,

il mare non sarà più ostacolo, non ritarderà

lo slancio del fiume impetuoso, teso

al compimento della propria missione”

(Sulla soglia del distacco, p.44).


E se la vita è un viaggio di acqua dolce che si perde nell’acqua salata del mare e che forse solo in quell’acqua trova la sua completezza (quasi un indiarsi), è nella soglia della foce che si svela il senso del cammino che comunque ha cambiato quell’acqua che alla foce non è più la stessa della sorgente:


“dalla sorgente al mare qualcosa è cambiato

lungo lo scorrere dei giorni, la rabbia

dei flutti si infrange sui sassi e rallenta,

trova la pace del perdono e la foce diviene

occasione di riconciliazione con il mondo.”

(Sulla soglia del distacco, p.44).


Sulla quella soglia non ci sono più parole e non ci sono più domande. Il mare ha le risposte ma le riserba solo all’acqua che in lui si immerge e si confonde. Le domande ci attraversano e ci accompagnano (la sera, in modo particolare) non per strapparci risposte ma per mantenere viva la fiamma che ci chiama altrove, per non chiudere la porta all’imprevisto, per lasciarci andare alla foce e oltre la foce.

Una domanda. O meglio: la domanda o l’interrogazione unica affidata nel segno dell’amore: “credi nella vita eterna?” (p. 45).

Risposta è cammino, dolore, ricerca, vuoto, buio e infine luce. Cito (e mi scuso per la lunghezza, per altro necessario) gli ultimi versi del libro:


Non lo so, ripeto, ma spero ci sia:

mai vorrei che la morte fosse la fine

dell’amore per voi, lo sento

tracimare oltre la vita materiale,

non può cessare, la morte è passaggio

a nuova comunione di vita,

dev’essere così. Non potrei sopportare

il pensiero che tutto scompaia

nel nulla claustrofobico della terra:

per entrambe nessuna certezza, solo fede,

fede nella putrefazione e fede nella carne risorta.

Non lo so, ma spero che morte sia

il ponte oltre il quale il nostro amore

possa eternamente ritrovarsi.”

(Communio, p. 46)


Ora non si parla più di foce e di mare, ma di terra e di ponte. Se è vero che, nella concretezza del nostro corpo mortale, siamo polvere che ritorna alla polvere, al nulla claustrofobico della terra, e se, d’altro canto, ci soccorre la fede nella risurrezione della carne (comunque anonima e difficilmente coniugabile con quello che ora siamo e con i sentimenti che proviamo), rimane il sogno escatologico personale che la morte sia una nuova comunione di vita che permette all’amore di ritrovarsi perché quell’amore che doniamo gratuitamente non si perde.

In epigrafe al libro, allora, potremmo mettere un sigillo dantesco: “l’amor che muove il sole e le altre stelle” (Par XXXIII, 145), per dare fondamento a quello che ho definito sogno escatologico individuale, perché l’amore è l’unica via che ci consegna al divino che ci abita e non ci abbandona. E forse in questo viaggio in cui il Poeta ci ha tratti per mano, facendosi per noi padre che genera, custodisce e serve, c’è un insegnamento teologico profondo. Se, di fronte al mistero della morte, come cristiani fino ad ora abbiamo insistito sulla trasformazione della vita: vita mutatur non tollitur, forse è giunto il tempo di consegnare a chi ancora si interroga una nuova certezza: amor mutatur non tollitur.

E, ne sono sicuro, Matteo Pasqualone è poeta non perché ha vinto un concorso letterario o ha scritto versi con una lunghezza sovrabbondante, con un loro ritmo e con una prosodia che richiama il raccontare il mondo ed il dialogo interiore con l’altro in noi e fuori di noi, ma perché ha lasciato che le parole fluissero a ritroso dalla foce alla sorgente per non perdere l’eco e la memoria di tutto ciò che l’acqua del nostro vivere attraversa. Parole con cui si entra in risonanza e che, zittendo come muto mistero tonante il rimbombo delle cose vane del mondo, ci lascia udire l’imprevisto che bussa al nostro uscio.

Cos’altro è, se non questo, la poesia?

1 Il riferimento diretto è a Gen 1,2: e lo spirito di Dio aleggiava sulle acque.

2 Ez 36,26: “vi darò un cuore nuovo, metterò dentro di voi uno spirito nuovo, toglierò da voi il cuore di pietra e vi darò un cuore di carne”.

3 Sul generare/creare abbiamo già discusso all’inizio della recensione. Custodire e servire richiamano i compiti che il Signore Dio assegna ad Adam nell’atto di porlo nel Gan Eden: “Il Signore Dio prese Adam e lo pose nel Gan Eden perché lo servisse e lo custodisse” (Gen 2, 15).

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