domenica 15 novembre 2020

“il corpo è il delicato debito che ciascuno contrae col tempo”

Gaetano Giuseppe Magro, Assenza di segnale, La Vita Felice 2020

recensione di AR




“ogni vita è carne che beccheggia / s’arrota su un asse di dolore cartesiano / e punta la propria cicatrice al cielo cheloidale” (p. 89). È un libro impegnativo, latamente pessimista (“le parole non dicono il mondo / perché il male è nel telaio della materia”, poesia eponima, p. 92) e struggente (si veda, ad es. Palestina a p.93) questa Assenza di segnale di Gaetano Giuseppe Magro, anatomopatologo presso l’Università di Catania che sa riversare in autentica poesia anche i tecnicismi della sua professione. La sua è da sempre una indagine chirurgica della condizione umana, una biopsia che sa leggere i dati, interpretarli e porli con ironica (e in fondo empatica (“invisibile è l’argano che trascina // il mesentere di dio alle celesti metaplasie ciliate caliciformi”, p. 66) crudezza di fronte a noi: ammassi cellulari ben consapevoli che dobbiamo in qualche modo e per qualche causa morire, raggiungere quel grado di massima entropia che è la disgregazione/decomposizione del nostro organismo: “e di noi, cellule di ventura, non resterà che un giro in aria / di compasso, una punta fissa sulla trabecola morale del niente” (p. 11).
Dell’anima, dello spirito non si parla: non sono scientificamente analizzabili. Eppure c'è come la nostalgia di una trascendenza; se vogliamo, laicamente, di una sapienza laterale, complementare, misterica, sfuggente che possa nominare “cause” ulteriori, celesti e sfuggire alla presa assoluta di un vuoto/nulla che sembra ingoiare tutto quanto afferisce alla nostra consapevolezza, al nostro pensiero… ma senza una tangibile “trasformazione” così come avviene, invece, per la terra che, in un lasso di tempo più o meno lungo, renderà humus le nostre spoglie mortali, riaggregherà i nostri atomi: “credo nella sola resurrezione degli atomi / alla loro casuale aggregazione microscopica” (p. 86). 
A me pare che l’approccio scientifico, specie quello più “stretto”, abbia un latente bisogno di Altro, e già dal titolo questa raccolta segnala una assenza che è un implicito desiderio di colmarla. Lo afferma del resto, sia pure con un velato sarcasmo, anche Gaetano Giuseppe: “è la stessa fisica che rimanda alla metafisica / perché inevitabile è la tensione sul margine, / (…) // ogni fisica è corta d’assenza e ogni cosa ha un’ombra / l’uomo vede il mondo con le parole che ha e non ha / il resto è schiuma di dio – tutte le parole che non ha –” (p. 90). 
La poesia stessa si dice da sempre “ispirata” e anche se l’autore afferma che “scrivere ha poco o niente a che fare con vivere / le copertine guardano mute, come da vasta emorragia” (p. 70), non può che affidarsi alla parola, scherzare col tempo e chiedersi: “e se tutto fosse stato creato, forse in un millisecondo, / e messo poi in onda in differita, già morti vivendo? / Zampilla il grande nulla che pota i pitosfori di vanità / le mie cellule protestano nude sui tetti del mondo!” (p. 83). Oppure gioca coi numeri: “Zero esiste perché non c'è / e per gli uomini – si sa – / l‘invisibile è più necessario / della somma d’ogni minimo censibile” (p. 85).
Ricco di metafore, immagini (“gli alberi hanno i piedi nella neve / e per questo si muovono di notte”, p. 40), analogie intriganti, questo libro è una esplorazione anatomica che ha in fondo il desiderio (illusorio?) di arrivare oltre, di sfondare il muro del visibile: “il mondo microscopico è ipotesi d’infinito / che veglia irraggiungibile sui punti del finito / prossimo a finire: ogni margine è lama che taglia / il fitto limitare nel paziente evaporare d’altro // goccia a goccia in un travasar di finte metamorfosi” (p. 95).
Magro chiede alla parola medica o poetica un senso che duri, un segnale percepibile ed efficace che non svanisca subito: “le cose, come le parole, sono quel che sono / in questo inciampare d’altro / perché – in fondo – loro sono noi // e noi, come tutte le altre cose, / come non fossimo mai stati, / come ogni neve, per un tempo troppo breve” (p. 33).
Ecco perché queste pagine ci toccano le viscere, ci interrogano con ostinazione, per ondate successive, come una risacca che ritorna sulla battigia come un ricorrente memento mori, ricordandoci la nostra intrinseca caducità fisiologica, la nostra biologia così piena di ferite, fessure, tagli… E allora queste poesie sono un SOS e al contempo, forse, una scialuppa di salvataggio per l’autore e per tutti noi perché ci rende più consapevoli del nostro destino, più dubbiosi (“la parola è piccola pulce di mare / che mangia l’occhio al gran pesce della verità”, p. 98) e quindi più responsabili del nostro esserci, del valore delle scelte che facciamo. 
Scrivere è sempre un esporsi, un darsi ad altri esseri senzienti, un cercare nel silenzio quel segnale/canale su cui sintonizzarsi, sapendo che: “ogni cosa vanta lo spessore del nome che porta / (…) / si rimane accordati appena su questo pianeta” (p. 36).   

PS Il verso che abbiamo posto a titolo di questa recensione è tratto da Bestemmia, p. 91.

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