Massimiliano Bardotti e Gregorio Iacopini, Il colore dei ciliegi da febbraio a maggio
splendida recensione/intervista di Giovanni Fierro in Fare Voci ottobre 2020
Un libro scritto assieme, due autori che trovano un dialogo e si
incontrano in una reciproca attenzione, con la poesia che diventa voce e
si fa corpo spirituale.
Penso si possa riassumere così l’esperienza di Il colore dei ciliegi da febbraio a maggio di Massimiliano Bardotti e Gregorio Iacopini.
Queste sono pagine dove l’ispirazione trova il dire dello stare al
mondo, il soffio vitale che sorprende e nutre, il luogo in cui ci si può
ritrovare “con gli occhi sbarrati per troppo vedere” mentre “intatto rimaneva ogni mistero”.
Bardotti e Iacopini hanno la confidenza necessaria per cercare i perché della nostra esistenza, consci che “si resta, in attesa di qualcosa di grande./ Ciechi sulla grandezza del filo d’erba/ o della foglia”.
E forse è proprio quel punto l’equilibrio necessario per appartenere
alla natura, al suo grande significato, nel momento in cui si può dire “rimango, per cantare la magnolia che fiorisce/ per l’uva e per il rosmarino/ per il morso a cui invita il pomodoro”.
Tutto Il colore dei ciliegi da febbraio a maggio è una invocazione
continua, un attestato di appartenenza ad un credo che tutto illumina, e
la cui luce è brace che anche riscalda.
Sono pagine che sanno affrontare la fragilità, “ciò che sorregge,/ è bellezza,/ non la terra: se la terra non ha senso/ fragilmente lo è bellezza”, e la ricerca di quel qualcosa che possa essere la prima accensione, “tra la precedenza che rimorde e l’avanzo/ che spaura, l’ogni volta in calcolata cesura/ dell’iniziale”.
Ma questo percorso scoperto e segnato da Bardotti e Iacopini non è per
nulla consolatorio, anzi, è un invito ad andare incontro al proprio
vivere, ben consci che comunque ogni minima verità è necessaria “per
scoprire che in punto di morte/ c’è un attimo di luce sorprendente/ e
che non basta contemplare/ ci vuole uno slancio, all’ora giusta”.
Perché poi a leggere queste loro pagine si è pacificati da un senso di
perdono, da una comprensione che si allarga e che accoglie, che
sottolinea l’aspetto umano di ogni esperienza e la rende sacra, unica.
E la meraviglia di “Il colore dei ciliegi da febbraio a maggio” è anche
nella preghiera che conclude questa prova d’autori, dove con fiducia e
appartenenza scrivono “così tu mi lavi i piedi/ così io ti lavo i
piedi./ Così spezziamo insieme il pane/ così lo diamo agli affamati/ e
se ne avanza, ci sfamiamo.// Come fosse davvero normale l’amore.// Come
fossero gli occhi degli altri, la mia resurrezione”.
E poi sta al lettore continuare il lavoro di Bardotti e Iacopini, il
riempire di bellezza i mesi che mancano al colore dei ciliegi, da giugno
a gennaio.
dal libro:
China il capo, l’estate
e tutta la giovinezza d’un tempo
si fa volto straniero.
Dilaga un senso di quasi sereno
mentre anche il cielo annuncia
lo sfiorire dei giorni.
È ora, un’intensità quasi di neve
ma no, no ancora, quasi.
La bellezza comincia sempre
un attimo prima di accadere.
*
Forse non abbastanza abbiamo cantato lo stelo
abbagliati come siamo dalla corolla, dai petali.
Ma sarebbe come non cantare le radici
o il giorno che, aperti i cieli, siamo nevicati.
È come scordare d’essere nati
e pretendere il diritto di morire.
Forse l’origine ha memoria di noi.
Forse ha a che vedere con la fine.
*
Il sole, oggi che piove, è altrove
a riscaldare un’altra schiena
mentre qui, piano, la terra beve
si dilata.
Mi piace
rimanere a guardare i fili d’erba
che si piegano, quando una goccia li coglie.
loro lo sanno il peso di chi cade.
*
Vorrei parlare la lingua del vento
scoprire quel che sussurra alla foglia
convincerti poi a lasciare ogni presa
fino a morirti mentre ricolmi
chi ti raccoglie o ti calpesta
lontana dalla fine
come l’inizio.
*
Ci sono modi migliori per evaporare
che nascondersi sulla riga
della lacrima intuita sulla guancia:
situarsi nella zona d’equilibrio della stella,
nel canto del cardellino
con orecchio fatto melodia,
osservare il seme con occhi di frutto,
madre e figlio insieme, ospitare il tempo,
dar la nascita unico fine.”
Intervista a Massimiliano Bardotti e Gregorio Iacopini:
Come si scrive un libro di poesie in due?
Massimiliano Bardotti: Posso raccontare la nostra
esperienza. Come sempre accade c’è stata una chiamata, perché credo che
ogni vera scrittura sia risposta a una chiamata. Nel nostro caso è
arrivata da Alessandro Ramberti, editore (Fara) e poeta… mi ha invitato
agli incontri di Fonte Avellana, dove per tre giorni poeti, artisti,
giornalisti, scrittori si confrontano su un tema. Gli ho detto che avrei
portato un amico, Gregorio.
Il tema dei tre giorni era: ‘La via’. Ho detto: Benissimo, facciamo
qualcosa che un tempo era normale e che oramai non fa più nessuno, un
dialogo poetico.
Inizi tu, scrivi una poesia ed io ti rispondo, poi tu mi rispondi e
andiamo avanti così. Ecco, in questo modo è nato il dialogo poetico “Il
colore dei ciliegi da febbraio a maggio”.
Da lì è passato un po’ di tempo, Gregorio era preoccupato, poi ha
cominciato, ha rotto gli indugi, ha scritto la prima poesia e da lì sono
passati tre giorni in cui a qualunque ora del giorno e della notte ci
rispondevamo.
Dalla sua prima poesia è scaturita una mia poesia di risposta e dalla
mia risposta una sua e così via, incessantemente senza sosta, per tre
giorni folli! Mentre abbiamo scritto il dialogo non ci siamo mai visti,
in quei giorni eravamo lontani e ci spedivamo i nostri scritti via mail.
Sono stati tre giorni furibondi, bellissimi. Poi siamo arrivati alla
fine, quando abbiamo sentito chiaramente esaurirsi quel soffiare di
parole, quel vento che ci ispirava e faceva uscire le parole.
Allora al telefono ci siamo detti che avremmo dovuto mettere via il
testo, non leggerlo più, dimenticarci addirittura di averlo scritto, per
poi tornarci dopo, anche dopo un mese, convinti che il finale sarebbe
arrivato, così come erano arrivate tutte le altre parole.
Ma Ispirazione fa come vuole, è una Dea bizzarra e simpaticissima.
Appena abbiamo riattaccato i tre versi finali del dialogo mi si sono
manifestati, apparsi chiarissimi.
Gregorio Iacopini: C’è la necessità di affidarsi a
qualcosa di più grande di entrambi, come ad un luogo in cui si
incontrano le parti più intime di ciascuno. Una volta fermi gli sguardi
sull’orizzonte che illumina il percorso, niente più resta da decidere,
né è possibile farlo. D’altronde è così per ogni viaggio. La Poesia, che
c’era prima di noi e ci sarà dopo, e l’Amore che a lei
meravigliosamente c’incatena, è stato quel luogo.
Quale “l’organizzazione” necessaria per realizzarlo?
M.B. C’è una cosa che ritengo fondamentale. Sempre
partendo dalla nostra esperienza, quello che per noi è stato davvero
necessario è stata la preparazione. Pratichiamo entrambi la meditazione
profonda (di tradizione cristiana) abbiamo lo stesso padre spirituale
(Guidalberto Bormolini, sacerdote, monaco, antropologo, uomo di spessore
culturale, umano e spirituale immenso), abbiamo uno stile di vita
simile. Abbiamo passato notti a leggere poesia ad alta voce, meditare
lungamente insieme, cercare una stessa armonia. Accordarsi, insomma, per
cantare insieme. Chiedere aiuto, chiedere ispirazione. Chiedere ad
Amore di traboccare dai versi, dalle parole. Implorare il bene di essere
l’unica ambizione del libro. Scomodare l’Infinito se necessario, senza
timore abbia cose più importanti da fare.
Leggere i grandi poeti morti, chiedere il loro aiuto, la loro
ispirazione. Farli vivi attraverso le loro stesse parole. Questo, più di
tutto, abbiamo fatto e se devo essere sincero credo questo sia il
lavoro più importante che un poeta possa e debba fare. Pregare.
G.I. Questo libro ci ha chiamati. Accettando alcuni
inviti noi ci avvicinavamo a lui e lui si avvicinava a noi. Per quanto
mi riguarda, il primo invito accettato è stato quello di Massimiliano,
che ho la fortuna di seguire nella poesia, quando mi ha chiesto di
accompagnarlo al convegno di Fonte Avellana. Mi piace tanto il modo in
cui Massimiliano parla dell’inizio. Non è il primo cronologico, ma il
principio che è centro e cuore delle cose. Questo libro è nato dal
centro.
È stata un’esperienza indimenticabile. La parola si formulava nella
testa, ma nello schermo già era scritta quella dopo. E le forze man mano
venivano meno, tanto che è stata la sensazione di essere esausti,
fisicamente ed emotivamente, a dichiarare la fine del dialogo.
Il libro è una vita vera e propria, che prosegue in chiunque ne
raggiunga il cuore. Penso sia questa l’unica “organizzazione” necessaria
per realizzarlo.
Mi sembra che in tutto il libro ci sia una intensa fiducia
nel ‘sentire’, nel mettere in moto la propria sensibilità, per trovare
una certa sintonia con il vivere quotidiano. Può essere così?
M.B. Assolutamente, è proprio così. Un sentire che
ovviamente va stimolato, e va fatto tutti i giorni, altrimenti si
perdono i contatti con quello che davvero conta nelle nostre vite. Così
come per i monaci si parla di ascesi (uno stile di vita, o meglio una
disciplina di vita, preciso, da coltivare quotidianamente per affinare i
propri sensi nella direzione dello spirito, per rendersi capaci di
sentire, appunto, percepire il grande mistero della vita) anche per il
poeta, a mio avviso, non si può che parlare di ascesi.
Ovviamente quella del poeta sarà diversa, per caratteristiche e per
scelta. Ma la sensibilità è qualcosa da coltivare. Tutto richiede un
impegno, un lavoro, una dedizione…
G.I. Certamente. Credo sia questa la Poesia. Uno
sguardo nuovo. Il poeta è colui che te lo regala. È necessaria l’intensa
fiducia di cui parli. Spesso i calcoli che facciamo non si accordano
con quello che sentiamo. E siamo oramai talmente legati ai calcoli che
quasi non sentiamo più, o ce ne dimentichiamo. Come se per calcolare non
fosse necessaria un’unità di misura, o come se l’unità di misura fosse
qualcosa di indiscutibilmente vero. Ma non è così. Siamo noi che le
affidiamo i nostri occhi. La Poesia è una strada diversa, non inganna.
Sa che tutto è un grande mistero, ma sente il continuo rifiorire delle
cose, l’amore che nascostamente le muove e le si affida. L’ho chiamato
“sguardo” e così è chiamato solitamente, ma è qualcosa che avviene ad
occhi chiusi. Allontanandosi dalle proprie convinzioni e abbandonandosi a
tutto ciò che viene incontro. Allora quel che c’è da sempre diviene
nuovo.
E proprio questa sintonia, mi pare, dà valore alla natura, alla bellezza, che respirano a pieni polmoni in queste pagine….
M.B. La natura è la prima Bibbia. Vi è inscritto ogni
mistero. Ma la natura stessa è un mistero, le sue creature lo sono. Che
il poeta abbia una relazione speciale con la natura, questo è fuori
discussione.
Faccio due esempi. Il primo è Rilke, che nelle “Lettere a un giovane
poeta” afferma: “Ché il creatore dev’essere un mondo per sé e in sé
trovare tutto, e nella natura, cui s’è alleato”. Si parla addirittura di
alleanza!
L’altra che voglio citare è Chandra Livia Candiani, che dice: “… stare
nella natura, se no gli altri regni smettono di parlarmi”. E lo dice in
un contesto in cui conferma anche quello che dicevo prima, affermando
che per lei la poesia è diventata una Via, quasi una religione, con
tanto di precetti…
Della bellezza il poeta non può che nutrirsi, o che canterà? Non è
facile in un mondo in cui il male c’è ed è un’evidenza tanto chiara che
toglie il fiato.
È già sufficiente guardarsi dentro per incontrare tutto il male
possibile. Ma è altrettanto vero che la bellezza è dappertutto, e
certamente anch’essa dentro di noi. Ristabilirci un legame diventa
necessario alla vita. La natura è il luogo privilegiato.
G.I. Lo credo anch’io, ma soprattutto lo spero.
Ma temi così importanti e necessari, però, non fuggono
dall’avere un proprio ‘costo’…. Perché il ‘morire’ fa parte di questo
vostro tessuto narrativo, che emerge con una certa frequenza. È anche un
modo per dare valore a tutto il resto, ad ogni cosa che dà preziosità
al vivere?
M.B. Certo, anche, in un modo che forse oggi è a noi
sconosciuto, ma appartiene in maniera profonda alla nostra cultura, alla
nostra vita da sempre, alla nostra tradizione. Nella tradizione
cristiana, ad esempio, la contemplazione della morte era assolutamente
prevista e necessaria. Credo che senza contemplare la reale natura delle
cose (il sole tramonta ogni giorno per poi rinascere ogni mattina, la
luna fa lo stesso e addirittura scompare per tre notti prima di
riapparire..) non possiamo pretendere e nemmeno pensare di poter vivere
una vita piena. Ce ne sfuggono i significati più profondi.
Vorrei fare altre due citazioni, una di Christian Bobin, dal libro “La
vita grande”, che dice: “La vita non è il mondo. La vita è eterna. Il
mondo passa…” e Giuseppe Conte, il grande poeta ligure, che in un verso
di una poesia che amo moltissimo canta: “La tua sola ricchezza, ragazzo,
è la vita / che è sempre mortale e infinita”. Siamo di fronte forse al
mistero più grande, ma non sarà continuare a far finta che non esista a
renderci migliori, a farci vivere meglio, tutt’altro.
G.I. Il libro è uscito in un periodo in cui il tema
della morte era sotto i riflettori, in piena quarantena da pandemia.
Tuttavia, nel suo essere sotto i riflettori non ha cessato di costituire
il più grande rimosso della nostra cultura. La sua spettacolarizzazione
continua a farne un accidente, un incidente della vita. Tanto che c’è
chi in un certo tipo di scienza ne cerca proprio l’antidoto. Così
facendo, le speranze dell’uomo restano illusioni. La vita buona è
proiettata in un futuro remoto. Ma c’è un’altra speranza, che viene
proprio dall’assunzione della propria morte. Che è tante cose. È sapersi
finiti: qui adesso e poi chissà. Io, proprio come tutti gli altri.
Essere lungimiranti, saper gerarchizzare diversamente le proprie
priorità, i propri desideri. Saper godere di ciò che c’è, che viene,
senza disperare del suo finire. La nostalgia è uno dei pericoli che
corre chi apre il cuore alla vita. Lo sapeva Orfeo. Ma Dante ci insegna a
oltrepassarla. Piano piano cresce una nuova speranza, quando si
riconosce che nonostante la morte, o meglio, proprio per la morte,
l’unica cosa che conta è amare. Chiunque, senza condizioni.
Aldo Capitini, poeta e fondatore del movimento italiano della
non-violenza, scriveva che “tra la nessuna immortalità e l’immortalità
degli altri l’amore sceglie: che tu sia immortale”.
Entrare nella vita buona che c’è.
E in questo vostro lavoro, avete anche la forza di esplorare e
rendere vicina la fragilità umana, come nel testo di pagina 28 (la
terza poesia qui proposta, più sopra). Anche questo è un focus
importante per il vostro libro?
M.B. Sì, naturalmente e inevitabilmente. Proprio questa
fragilità, forse più di ogni altra cosa, questo senso di precarietà che
ci riguarda tutti, dovrebbe convincerci definitivamente e senza indugi,
che siamo tutti fratelli. Dovremmo avere l’istinto di abbracciare
chiunque ci troviamo davanti, ma pur essendo magari refrattari a certi
contatti, sentire l’urgenza di sorridere, perché anche se tutti siamo
diversi, e ognuno vive i propri drammi a suo modo, tutti abbiamo
sofferto, tutti soffriamo, tutti avremo ancora da soffrire, chi più chi
meno. Anche la sofferenza è parte della vita e ci riguarda proprio
tutti. Davvero, questo è già più che sufficiente a farci fratelli.
Potessimo sentire gli altri dentro di noi, cesserebbe ogni odio.
G.I. Come la morte, la fragilità è una benedizione per
l’uomo. Sapersi fragili è frantumare la nostra frequente tentazione di
fare degli altri e delle cose dei prolungamenti di noi stessi. Ho però
la sensazione che la fragilità, tema tutt’altro che ignorato dalla
nostra cultura, sia divenuta una cosa nota e morta lì, una
consapevolezza ultima. Quando credo che invece sia un angolo
privilegiato per ascoltare le cose. Da lì dobbiamo partire. Fu
Massimiliano a farmi riflettere su come ha inizio il viaggio di Dante.
Si trova lì, nel buio di un bosco. La luce proviene dalla sommità di un
colle, verso il quale prontamente si dirige. Ma spuntano delle bestie
che lo spaventano e lo fanno indietreggiare. Disperato vede un’ombra,
immagina sia un uomo, ma non ne è sicuro. Quel che fa è dichiarargli la
propria fragilità. Gli grida “Miserere!”.
La Divina Commedia non finisce qui; da qui inizia. Dobbiamo riconoscerci
bisognosi, riconoscerci in cerca. Siamo tutti qui, insieme, consapevoli
della frequenza delle nostre cadute, della sofferenza che proviamo
quando accade. Così il filo d’erba conosce il peso della goccia e si
piega per accoglierlo. Come il giunco con cui Dante si pulisce il volto
dalla fuliggine infernale, prima di riprendere il viaggio attraverso il
Purgatorio. Lo coglie e subito un altro ne compare. È lì per tutti.
Dobbiamo essere qui per tutti.
“Il colore dei ciliegi da febbraio a maggio” forse è un
cammino continuo all’interno di un ‘fare preghiera’ che è formazione
umana e svelamento spirituale. Vi riconoscete in questo?
M.B. Moltissimo! Ho già fatto cenno precedentemente a
questo che avverto come una necessità, e per un poeta secondo me non può
essere altrimenti. Poi quale sia la radice di questo pregare, quale la
tradizione, questo ha meno importanza.
In un periodo per me molto importante, segnato da grandi sofferenze, ho
sentito la necessità di una ricerca più profonda. E l’incontro con
Guidalberto Bormolini è stato davvero provvidenziale per me. Scrivevo
già, avevo già pubblicato libri, avevo vinto premi e avuto
riconoscimenti di vario genere, ma non avevo idea di cosa fosse davvero
la poesia né di chi fosse il poeta, e ignoravo tante altre cose. Lui non
è che me le abbia rivelate, mi ha dato degli strumenti per indagare. E
mi sta insegnando a pregare. Credo che chi insegna a pregare metta al
mondo, dia la vita. Non mi sorprende infatti, si chiami paternità (o
maternità) spirituale. Non avrei mai scritto questo libro senza questo
incontro e sono tante altre le cose che non avrei fatto, e tutto quello
che non sarei stato. Sono chi sono, grazie a questo incontro. Di
incontrare qualcuno così, lo auguro a tutti.
G.I. Totalmente. Da poco ho avuto la fortuna di
incontrare chi potesse insegnarmi a pregare. E sto scoprendo come
pregare sia farsi preghiera. Andare oltre le proprie idee, sulle cose,
gli altri, su noi stessi, e scoprire quel che c’è in questa terra
inesplorata. Penso sia la medesima vocazione quella della Poesia.
Perché, poi, si ha la netta sensazione di come tutto, in
qualche modo, sia sacro. Attraverso le vostre parole si vive anche un
senso di salvezza, una atmosfera di ‘perdono’. Necessarie penso in un
quotidiano così difficile, e a volte crudele, come il tempo presente in
cui siamo immersi….
M.B. Esattamente! Quando dici che tutto è sacro dici
una verità antica e ancora vivissima! Così è, da sempre, e sempre lo
sarà. E perdonare, perdonarsi, in un modo che è anche difficile da
spiegare, ma vivere, fare della propria vita un atto di perdono, fare
della propria vita pratica costante di perdono, è un modo per imparare a
vedere come davvero tutto sia sacro. Pulisce gli occhi, lo sguardo, lo
purifica. Insieme ai nostri cuori. Non si guarda solo con gli occhi, si
guarda con tutto il nostro essere. Si vive così. E non si può vivere
cercando continuamente un colpevole, un capro espiatorio, un nemico da
combattere. Oltre a essere estenuante, è anche l’unico modo per
garantirsi un’infelicità certa e infinita.
La vita chiama l’amore. Diamo voce, aggiungiamo le nostre voci, alla vita.
G.I. La Poesia musica ciò che porta alla vista. Per
farlo deve prima vedere. In lei tutto si svela Sacro, o Santo. Mi rende
veramente felice sapere quel “perdono” che mi dici aver vissuto leggendo
il libro.
È quel che provo ogni volta che mi abbandono a lei. E quando torno a
guardare le cose scopro che nonostante tutti i mali del nostro tempo,
che sono tanti ed enormi, ancora i tramonti sono meravigliosi, e nascono
le storie d’amore e le amicizie, ci sono luoghi di una bellezza che
toglie il fiato, persone che vivono per fare il bene e c’è la Poesia. E,
cosa fondamentale, che nonostante tutti gli errori che quotidianamente
commetto e tutto il male al quale contribuisco, ogni giorno che nasce
posso prender parte a tutto questo. La Misericordia della Bellezza
spesso mi commuove ed è quel che ho scelto di seguire.
gli autori:
Massimiliano Bardotti (1976) è nato e vive a Castelfiorentino.
È presidente dell’associazione Sguardo e Sogno, fondata da Paola Lucarini.
Tra i suoi libri più recenti, “Il Dio che ho incontrato” (ed. Nerbini, 2017), “I dettagli minori” (Fara, 2018, dal quale è stato tratto l’omonimo spettacolo teatrale con Viviana Piccolo) e “Diario segreto di un uomo qualunque, appunti spirituali” (Tau 2019).
Dal 2014 propone a Empoli, Prato e Castelfiorentino il corso di scrittura ri-creativa “Cut-up, la sartoria delle parole”.
Nel 2017 ha fondato la Scuola di scrittura “La poesia è di tutti” presso OltreDanza. Dal 2018 conduce “L’infinito, la poesia come sguardo”, ciclo di incontri con poeti contemporanei.
Gregorio Iacopini è nato a Poggibonsi nel 1996 ed è cresciuto a Castelfiorentino.
Studente di filosofia all’Università di Pisa, frequenta la Scuola di scrittura “La poesia è di tutti”, partecipando a varie letture pubbliche.
(Massimiliano Bardotti e Gregorio Iacopini, Il colore dei ciliegi da febbraio a maggio pp.87, 10 euro, Fara Editore 2020)
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