Riflessioni sparse sull’ultima uscita di Joe Metafora (alias Daniele Gigli)
di Matteo Bonvecchi
di Matteo Bonvecchi
“Dove più quieto s’alza l’equinozio / è adesso il tempo, è adesso che si sceglie / vita o morte, speranza o perdizione”. S’è fatta ormai questione di vita o di morte: nel nostro affanno soccombiamo, abbiamo bisogno estremo di sempre più spazi, più ampie riserve di gratuità, che soltanto la poesia con la sua inutilità può irrorare. Soccombiamo alla “brama che si smangia il desiderio”, verso bellissimo perché nell’appagamento d’ogni bisogno ci è reciso ogni rapporto con le stelle, con l’eccedenza del reale, con la realtà come signum, per quanto mai risolto, o forse proprio per questo.
Non a risolverlo – guai a provarci! – ma ad alimentarne, ad espanderne la dismisura delle riserve, ci soccorre Daniele Gigli-Joe Metafora con l’ultima sua raccolta dal titolo Di odore e di generazione (Fara Editore, novembre 2019).
Di odore: che sa di concretezza fisica, incarnazione, perché la carne odora, la vita odora e a volte d’un odore acre, o marcio, altre d’un profumo tenue, sempre caratteristico. Ci vuole fiuto e un fiuto fine, ben allenato, per seguire certe impronte, le tracce del vivere: “eppure intorno è vita, / in qualche modo, è vita, è ammonizione”; “tracce, odori, / un segno tra quei segni che dia senso, che ravvivi / i morti istanti, i morti fiori”. Uno schermo digitale non ha odore.
Di generazione: che è più che creazione (“generato, non creato”, recita il Simbolo), nella perenne sorpresa del dono, nel miracolo d’ogni nuova alba, “ancora un’alba nei millenni, / ancora un’alfa che contesta il vuoto, il suo pensiero”. Eppure “è un vizio nascere, una pena da scontare” si chiede la mente che “ascolta l’occhio”, e il cuore “spererebbe in un candore”. Sì, perché è fatica nascere, essere generati a se stessi, ogni giorno. La morte è l’esperienza che più gli somiglia: passaggio, dolore, lacerazione, vuoto, la luce. Ma solo così si viene al mondo.
Il verso è sempre pulito, uno spartito musicale. Tra le varie ascendenze letterarie, il ritmo spesso appare magistralmente improntato su Luzi. Tra le molte riflessioni che suscita la raccolta – acutissima la tensione morale, ad esempio nella sezione “In anarchia” – tra i tanti livelli di lettura sempre possibili, sembrerebbe che il cruccio di fondo dell’Autore per non aver generato fisicamente (risalendo gli avi conclude: “Giunio fece la stirpe e fu Maurizio e fu Giampaolo / che generò / Daniele – che generò: nessuno”), questa mancanza sia poi anche immagine del dolore per una possibile generazione altra, di quotidiana e dura necessità: quella dell’uscita da sé, del generare ora se stessi all’esistenza (“adesso è l’ora, adesso è vivere”), d’essere generati nella relazione (“non hai capito, / non chiedevo soldi, / soltanto di guardarmi in faccia”), farsi vuoto e generare il Bambino dentro, accettando inevitabilmente e passando per la propria solitudine-unicità. Esodo, faticoso attraversamento del deserto. Per cui non si è più quelli di prima: “Daniele Gigli è morto” (Remo Pagnanelli aveva scritto: “Exit Remus. Oremus pro eo”). Poesia non è forse questo? “Intanto che si slarga il giorno col suo odore, / con l’ostinata sua generazione”.
La nascita è faticosa: si nasce gridando. Ma è da quel pianto, è nel dolore come nota portante dell’esistenza, che si fa esperienza autentica della generazione del novum, che allora si trasfonde in canto. Oggi, ogni giorno. Forse non a caso l’ultima parola dell’intera raccolta è “resurrezione”.
Nessun commento:
Posta un commento