nota di lettura di Subhaga Gaetano Failla
I giorni dolci della kermesse estiva di Fara Editore a Fonte Avellana mi
hanno regalato quest’anno anche una nuova tenerezza: l’ultima raccolta poetica
di Ottavio Rossani, fresca di stampa, intitolata Soverato (I Quaderni del Bardo Edizioni).
Il libro ha per sottotitolo la seguente dicitura: (Autoantologia con poesie inedite 1976-2018). In copertina appare
un dipinto del 1995 dell’autore stesso, dal titolo Mare Jonio dalla collina di Soverato. Nella scena dal sapore
favolistico, un acrilico su tela, sono inseriti anche alcuni versi, tra i quali
questi: Stasera / il mare riluceva / in
una tela filata / dalla luna.
E sembra il compendio d’una esistenza favolosa questa raccolta poetica
che si snoda attraverso quarantadue anni, versi intessuti di malinconie tra
lontananze e ciclici ritorni, di slanci lirici e contemplazioni da cosmopolita.
Nella conclusiva Notizia sull’autore ben
si comprende l’intensa esperienza artistica, professionale e umana di OttavioRossani: “Poeta, scrittore, pittore e regista teatrale. Come giornalista – 40
anni al Corriere della Sera – ha viaggiato in diversi continenti; ha incontrato
potenti e umili negli ambiti della cultura, della politica, della cronaca. Ha
scritto saggi storico/letterari e racconti.”
Il libro Soverato è diviso in
quattro sezioni: Precognizioni, poesie
da Riti di seduzione (2013), Linee prospettiche (poesie inedite), Visioni soveratane (poesie inedite).
Cos’è Soverato? Per la
mondanità, è una seducente cittadina costiera dello Jonio calabrese
meridionale, impregnata di antichi umori della Magna Grecia, di decadenze, dinamismi,
inquietudini e malattie della contemporaneità. Ho avuto la fortuna di visitare
più volte Soverato, e di sentirla
forse ancor più intimamente d’un semplice turista perché, come Rossani, anch’io
sono nato in Calabria, dove ho vissuto fino alla prima età giovanile, per poi
partire, intervallando l’assenza con brevi ripetuti ritorni.
Ma Soverato di Rossani è luogo
universalizzante d’accoglienza originaria, al contempo frammento delimitato e
vastità sconfinata, è il carcere (ricordando
l’immagine di Pavese che in quella stessa costa fu esiliato) d’un orizzonte marino
che spinge ad andare oltre, limite e sogno dell’altrove e della fuga. Scrive
Rossani: Questa città mi ha accolto
appena nato, / mi ha coltivato per anni nelle sorprese, / ho scoperto qui ogni
giorno ipotesi / di conoscenze e allettanti libertà lontane.
Come più spesso accade in ogni Sud del mondo, l’uomo che lascia quei
luoghi – per scelta, per necessità – porta con sé una lacerazione, un
trascorrere e un restare anche quando si è partiti. E in Soverato si rinnova la ferita, tra la nostalgia, nel dolore d’un
ritorno auspicato, e l’anelito al viaggio, nella speranza di allontanarsi dalla
zolla di terra natia. Ho lasciato questa
plaga tanto amata, scrive Rossani nella poesia “Lasciando Soverato”, ancora deluso da sciatterie e invidie /
legate a un carattere atavico / di lassismo mentale e sentimentale, / di
barbara ingordigia e indifferenza. (…) Amo
i tramonti furenti del Sud / e soprattutto i sanguigni estivi / ammantati di
salsedine a Soverato.
Nella poesia intitolata “Damasco” Ottavio Rossani, un autore che ha in
sé il carattere planetario degli antichi filosofi greci e al contempo
l’impronta del viaggio a ritroso d’un Odisseo, sembra trovare una risposta
all’enigma del partire-restare-tornare: Tra
grido e sorriso non c’è dissonanza. / E si sfrangia sottile la tela del desiderio.
/ Possiamo progettare anche un’altra partenza / purché ci sia un ritorno. Un
febbrile ritorno.
Ci sono profumi inebrianti, in Soverato,
luminosità abbaglianti e oscurità, il deliquio della lentezza e dei torpidi
pomeriggi mediterranei, l’estate che sfolgora bruciante, l’osservazione
contemplativa d’un uomo seduto a un tavolino di bar. Ma ovunque in Soverato è presente il mare, il suo
alito, la sua voce furiosa o sommessa, il suo brusio, la potenza rigeneratrice
d’un vastissimo amnio: La sua acqua entra
ed esce dai cunicoli terrestri / quasi volesse fecondare le profondità
generanti. / Aspetto sempre la rivelazione del mare/madre. L’intimità di
quelle acque fa inoltre scrivere a Rossani, in un’altra poesia, in uno dei suoi
innumerevoli ritorni-partenze: Se
potessi, mi porterei il mare.
Nelle due sezioni finali, composte di inediti, il ritmo e le scansioni paiono
placarsi in una sorta di limpida e quieta prosa poetica. Sembrano racconti
meravigliosi narrati da colui che torna, il consuntivo d’una vita vissuta tra il
confine e l’oltre, in un dormiveglia assolato pullulante di visioni. E nella Seconda visione della poesia “Le nuove
rotte” l’eterno viandante Rossani
così scrive: Le dimensioni ora si sono
ridotte, / le distanze sono state accorciate dalle invenzioni. / Il viaggio avventuroso tuttavia esiste
ancora.
Concludo queste mie vacillanti note di lettura con i versi finali della
poesia “Il galoppo di un cavallo”, inserita nella prima sezione del libro
intitolata Precognizioni. È la poesia
che più mi ha colpito. Rappresenta per me la sintesi dello sguardo visionario
di Ottavio Rossani, un “osservatore speciale” che “sente una musica interiore
che nessuno intuisce”:
All’improvviso
calerà il crepuscolo.
Sentiremo
il freddo umido della sera
invasa
dal respiro ansioso dei gelsomini,
in
giardino storditi da migliaia di stelle.
A
uno a uno se ne andranno via
e
noi due soli a leggere poesie,
come
in una lontana notte sul balcone
nel
fruscio rinfrescante degli ulivi.
Eri
allora la mia luna.
Ci
sarai ancora mia fortuna?
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