domenica 9 settembre 2018

Quei versi di Fresa sul filo dell'abisso


Mario Fresa


Mario Fresa, Svenimenti a distanza (Il Melangolo, 2018)

Recensione di Sebastiano Aglieco


Una delle tentazioni più forti che vengono leggendo questo libro, è quella di metaforizzare l’oscuro, il non detto. Quella, cioè, di trovare appigli interpretativi, di aggrapparsi al filo bidirezionale della comunicazione che tradizionalmente ci conduce dalla cosa alla parola, dalla parola alla cosa.
Questo filo, a ben vedere, esiste, ma è trasparente, del tutto disinteressato a indicarci una via, a metterci in guardia dal non precipitare nell’abisso dell’incomprensione.

Ecco, insomma, l’ampolla mercuriale, “ermetica”, nel senso etimologico, di Hermes; custode di immagini contenute “dentro”, la cui presenza/esistenza è percepibile solo nella separazione che la parete di vetro mette in atto tra la cosa/fatto e lo sguardo, nel silenzio di una comunicazione senza parole.

Autonomia del significante… ma è una trappola. Perché, dicevo, nel libro di Fresa, questo filo d’equilibrista esiste ed è da intendersi come costruzione autonoma di un “altrove”, “racconto musicale”, ben dice Eugenio Lucrezi nella presentazione.

Racconto che procede per autonomia significativa, scritto nell’altra lingua che sottintende la lingua, un sottotesto diffuso, simile alla lingua del sogno, precipitata al di qua dell’orizzonte dell’alba e riconsegnata allo stesso poeta da quella misteriosa facoltà che chiamiamo poesia.

E’ anche, questa, lingua partitura, altro medium, come la musica e la danza. La conseguenza, allora, è un’evidente sfida alla lettura, non più, come avviene, attivazione delle sinapsi tra esperienza personale e stimolazioni del testo ma camminamento verso l’altrove del testo, il paesaggio che il testo contiene in sé.



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