Mario Fresa |
Mario Fresa, Svenimenti a distanza (Il Melangolo, 2018)
Recensione di Sebastiano Aglieco
Una delle tentazioni più forti che vengono leggendo questo libro, è
quella di metaforizzare l’oscuro, il non detto. Quella, cioè, di trovare
appigli interpretativi, di aggrapparsi al filo bidirezionale della comunicazione
che tradizionalmente ci conduce dalla cosa alla parola, dalla parola alla cosa.
Questo filo, a ben vedere, esiste, ma è
trasparente, del tutto disinteressato a indicarci una via, a metterci in
guardia dal non precipitare nell’abisso dell’incomprensione.
Ecco, insomma, l’ampolla mercuriale, “ermetica”,
nel senso etimologico, di Hermes; custode di immagini contenute “dentro”, la
cui presenza/esistenza è percepibile solo nella separazione che la parete di
vetro mette in atto tra la cosa/fatto e lo sguardo, nel silenzio di una
comunicazione senza parole.
Autonomia del significante… ma è una trappola.
Perché, dicevo, nel libro di Fresa, questo filo d’equilibrista esiste ed è da
intendersi come costruzione autonoma di un “altrove”, “racconto musicale”, ben
dice Eugenio Lucrezi nella presentazione.
Racconto che procede per autonomia
significativa, scritto nell’altra lingua che sottintende la lingua, un
sottotesto diffuso, simile alla lingua del sogno, precipitata al di qua
dell’orizzonte dell’alba e riconsegnata allo stesso poeta da quella misteriosa
facoltà che chiamiamo poesia.
E’ anche, questa, lingua partitura, altro
medium, come la musica e la danza. La conseguenza, allora, è un’evidente sfida
alla lettura, non più, come avviene, attivazione delle sinapsi tra esperienza
personale e stimolazioni del testo ma camminamento verso l’altrove del testo,
il paesaggio che il testo contiene in sé.
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