Giuseppe
Vanni: Paris Necker, Poesie, FaraEditore 2017
Giuseppe,
scrivo in forma epistolare la recensione alla tua raccolta di versi ParisNecker, fresca di stampa.
scrivo in forma epistolare la recensione alla tua raccolta di versi ParisNecker, fresca di stampa.
Scelgo l’epistola
ché mi permette di comunicare da padre e padre l’esperienza irrisolvibile della
lotta contro le sofferenze che le malattie comportano alle nostre persone care, in particolare i
figli.
La Francia è
stata, ed è, la culla della Rivoluzione del pensiero umano. Ha traghettato le aspettative
di molte nazioni nel passare dal cupo livore della mancanza di ricerca
scientifica alle mete che oggi le rendono consapevoli in molti campi.
Basti pensare
alla fondazione dei cimiteri che hanno risolto le epidemie che nel passato
uccidevano migliaia di persone mentre pregavano sulle spoglie dei propri
defunti nelle chiese.
I viaggi della
speranza, così si chiamano oggi, rivolti a luoghi diversi dalla nostra Penisola confermano che abbiamo una grande necessità di indirizzare fondi e
menti nella ricerca scientifica, sovente sostenuta soltanto dalle donazioni dei
privati.
L’esperienza
che trasmetti in versi nelle pagine della tua raccolta sono il diario che ogni
genitore vorrebbe scrivere per comunicare il duro cammino intrapreso accanto al
proprio figlio con la forza fisica e d’animo che solo l’amore famigliare sa
scandire.
La vita all’interno
degli ospedali non ha né tempo né gioie. Solo lotta interminabile con una
clessidra calata dalle circostanze sul nostro capo. Giorni e notti si
confondono interminabili mentre circondiamo di tenerezza il frutto della nostra
stessa carne: “(…) Tu curioso mi
guardi, / ignaro del mondo sorridi, / vivi e non lo senti / questo
tempo / che ci divarica il presente / che ci dilata l’esistente / e che si chiude / e si dischiude su di noi
/ che più non sappiamo / cos’è
prima e cos’è poi.” (pp. 28-29).
La tua ricerca
nella fede cattolica cristiana di una risposta è la stessa che si pongono da
duemila anni tutti i credenti: “(…) se Dio esiste, perché permette che gli
innocenti soffrano?” (Claudia Rubbini, nell’Introduzione).
La nostra fede,
che attinge alle fonti ebraiche, ricorda proprio come, per colpire il Bambino
appena nato, il Re Erode fece sterminare tutti i nati del villaggio di Betlemme.
Il dolore di quelle morti ingiuste giunge oggi fino a noi sotto forma di
sofferenza dei nostri figli di fronte alle malattie.
Non sempre i
ministri della chiesa riescono a lenire il dolore: “(…) qui dove / risuona l’eresia
/ della giustizia / retributiva /
e dove / più vuota / appare / la teodicea / nei volti / innocenti” (Il
parroco, p. 113).
Qualche
brandello di sorriso appare sui volti segnati dalla continua sofferenza dei
bambini quando si affacciano nella stanzetta altri bambini degenti insieme al
clown dell’ospedale. Altrimenti la malattia ricompone la sua coperta di
sofferenza impedendo ogni comunicazione: “(…) tu vivi / ti contorci / ti
struggi / per traguardare / questa vita / e io traballo / per la vertigine /
che mi sprofonda” (pp. 34-35).
Mi permetto di distogliere
per un momento, Giuseppe, il filo della sacralità della sofferenza per questi
tuoi versi ed accostarli a quelli della voce del nostro Montale: “(…) E
andando nel sole che abbaglia / sentire con triste meraviglia / com’è tutta la
vita e il suo travaglio / in questo seguitare una muraglia / che ha in cima
cocci aguzzi di bottiglia.” (da Ossi di seppia).
La muraglia,
metaforicamente, ci separa dalla triste meraviglia che Madre Natura pone sul
nostro cammino, in noi, nei nostri affetti. Siamo cresciuti al sole e come semi
torniamo al buio della terra che ci contiene e ci trasforma.
Non esistono
punizioni volute dal Dio cristiano. Altrimenti tanto male, tanti bambini
sacrificati al rogo delle guerre, tanti maledetti carnefici, non sarebbero
stati vittime e protagonisti dei mali del nostro pianeta.
Caro amico e
padre, troppi cocci aguzzi bevono il sangue giusto delle mani che tentano di
valicare la muraglia che ininterrotta da millenni ci preclude il calore di un
Dio che vorremmo vicino, umano e presente, negli ospedali e nei luoghi di Fede.
Vorrei
continuare a scriverti non per consolarti ma per rafforzare in me il ricordo
che ho del figlio perso e vivo nel mio vivere.
Mi fermo
convinto che sei un padre, come molti di noi, chiamato a testimoniare la tua
fede nel bene che anima i tuoi giorni: “(…) e spero / che se vivi / avrai pietà
/ di questo padre / del suo coraggio / al macero / e del gorgo/ in cui debole / affoga / nella sera / senza te” (p. 35).
Aggiungo i
versi di un altro padre, grande anch’egli, che al figlio di nove anni perso per
malattia scrive rivolto a noi che brancoliamo nel buio dei giorni datoci da
vivere: “(…) Mai, non saprete mai come m’illumina / L’ombra che mi si pone a lato, timida, / Quando non spero più…”
(Giuseppe Ungaretti, da Giorno per Giorno).
Luglio 2017
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