recensione di Vincenzo D'Alessio
Mi incontro oggi con la raccolta di
poesie di Carla De Angelis: Mi fido del mare, edita presso FaraEditore di
Rimini a giugno di quest’anno.
L’Autrice ama il mare e l’ha cantato in
diverse raccolte precedenti.
L’amore per l’immensità del mare è
paragonabile all’amore per l’immensità del Bene Supremo di fronte all’opposta
immensità del male che attanaglia costantemente l’esistenza degli esseri umani.
Le due forze in campo il lettore le
potrà verificare nei versi di questa raccolta attraverso le metafore: giorno/notte; sole/luna; bianco/nero; dualismo di scelte, di ambienti, di profumi.
La Nostra scrive in versi l’amore verso
l’umanità. Scrive versi per incontrare altre voci nel confronto. Pubblica per
rappresentare una barriera al dilagare del materialismo: offrirsi senza
superbia nell’opera creativa che la poesia ha assunto dalla sua comparsa in
mezzo agli uomini (prima apparteneva agli Dei): “(…) Apparecchiamo ogni giorno dolci
carezze / per il tuo sacrificio in ogni dove / purché ci sia un solo uomo ad ascoltare /
uniamoci a tavola nello stesso colore
/ la strada è questa, stessi passi nel cuore” (pag. 73).
Oggetti ed emozioni. Ricordi e luoghi.
Ritmi e odori. La poesia di Carla nasce di notte, lo scrive di suo pugno
nell’introduzione, quando i silenzi sono più forti e la serenità ha il respiro dell’infinito.
Tenace e perseverante, questa poeta, ci
pone di fronte ad una tematica che coglie in modo esaustivo la lezione del
Novecento che abbiamo vissuto e che Luciano ANCESCHI ha raccolto in queste
parole: “(…) Così il metodo della analogia e quello delle equivalenze
oggettive sono forse le tecniche simboliche più insistenti che percorrono tanto
in senso sincronico che in senso diacronico la sintassi poetica del novecento
secondo particolari e disformi disposizioni e risultati” (Le istituzioni
della poesia, 1968).
Le figure retoriche nei corpi poetici di
questa raccolta si rifanno a questa lezione: “(…) Il tempo è prezioso e finito / è
meglio nuotarci dentro / come fosse mare” (pag. 37) – “ Mangiavamo il
tempo, era tenero e buono, ma / la strada era sbagliata.” (pag. 75) – “Amo così
tanto il mare / che vedrei azzurra anche la morte / se mi cogliesse mentre nuoto / verso l’altra sponda”
(pag. 99).
Assonanze, metafore, analogie,
personificazioni, anafore, l’enjambement e altre figure retoriche accompagnano
il racconto poetico dell’A. e il suo amore per il mare/ infinito.
Una riflessione merita la prima
composizione poetica, a pag. 13: l’invidia: il peggiore veleno che muove il male
nel mondo, è personificata nell’astro notturno, la luna, capace di portare via
la felicità di una nascita: “La luna invidiosa della tua bellezza / quella
notte si posò accanto al tuo lettino / rubò qualcosa di te / basterà la vita
per ritrovarlo?”
Come nelle nostre favole meridionali più
diffuse “le janare” di notte
raggiungevano le culle dei neonati e i più belli li storpiavano per invidia.
Così i versi di Carla annunciano il
maleficio che ha portato via la bellezza della sua creatura. L’astro ha assunto
la valenza di una “luna nera” apportatrice di calamità e sofferenze.
Nella raccolta il
richiamo a questo dramma è presente molte volte come ad esautorare il dolore
che è nella mente e sostenere la luce del Bene per porre fine all’interrogativo
enunciato nei versi.
Una raccolta dettata dalla maturità
dell’A., divenuta sagace, padrona della parola, dei suoi effetti positivi sul
lettore e sulla benefica intensità del suono dei versi.
Nuovi percorsi raggiunti dall’incontro
con altre esperienze poetiche e contaminazioni contemporanee: “Eppure amo
questa vita che fa di me una / persona / impreparata inquieta” (pag. 105).
A questo punto, caro lettore, sono certo
che accetterai l’inserimento di una leggenda cristiana ispirata dalla lettura di
questa raccolta.
Tra le molte di queste attribuite a
Sant’Agostino d’Ippona, vescovo di Cartagine, si racconta che mentre
passeggiava in riva al mare, preso dalla sua metidazione filosofica sulla
Santissima Trinità, incontrò un fanciullo che portava acqua dal mare verso un
buca che aveva scavato sulla spiaggia con una conchiglia.
Il santo chiese al fanciullo cosa stesse
facendo: “Metto il mare in questa buca”, rispose semplicemente il fanciullo.
Agostino lo riprese: “È una fatica inutile, il mare non potrà mai entrare
nella buca”. Al che il fanciullo disse: “Agostino, come potrà l’immensità di
Dio entrare nella tua testa?, e scomparve.”
Accetta la mia limitatezza e confrontati
anche tu con la vastità di questa fiducia verso un mare, caro a chi scrive, che sommuove i versi di Carla De Angelis.
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