Sonetti
anarchici e perfetti
di
Mario Fresa
Jacopo
Ricciardi, nato a Roma nel 1976, è un artista metamorfico e intelligentemente
versatile, i cui interessi spaziano dalla pittura alla poesia, dall’attività
traslatoria alla prosa d’arte. Ogni suo libro sembra costituire un organismo in
sé compiuto e autonomo e, contemporaneamente, si mostra come il prezioso
tassello di un mosaico variegato che sempre si distingue per la sua ricca,
flessibile originalità espressiva.
La
sua nuova raccolta, Sonetti Reali
(Rubbettino-Iride, 2016) colpisce già dal titolo: l’autore vuole restituire
alla scrittura poetica una tinta forte, verticale, aristocratica, in virtù
della dimensione superiormente altra
della sua stessa natura (ben diversa dalla comunicazione “narrativa”,
didascalica, orizzontale, del linguaggio comune e quotidiano). I testi di
Ricciardi ripropongono, con audace e brillante sagacia, la forma del sonetto;
ma il ritorno a tale nobile e “classica” composizione (strutturata – come da
tradizione – in quattordici versi endecasillabi divisi in due quartine e due
terzine) non è intesa dall’autore come un ludico esercizio di stile, né come
un’occasione per volere, idealisticamente, ricuperare la pura bellezza di una
remota modalità stilistica: perché la geometrica e luminosa organizzazione
formale del sonetto permette a Ricciardi, paradossalmente, di muoversi con una
felice e ispirata libertà di toni, accenti, colori di assoluta, sorprendente
vivacità. Si noti l’uso esemplare di parole inconsuete e rare, splendide già
nel loro suono: anacardo, biche, scisto, arieli, faglia, tura, boòpide,
dulcimera; gemme musicali che mostrano visioni e dimensioni segrete e
inconosciute, quasi alchimisticamente “create” dalla lingua e dallo sguardo del
poeta. E poi, ogni sonetto sembra davvero vivere di una sua propria vita,
perché diverso l’uno dall’altro; e ogni componimento pare quasi nervosamente mutare
nel suo aspetto, pur restando, nella sostanza, fedele a sé stesso: in Velocità (p. 21) i versi s’accorpano
tutti, gli uni sugli altri, uniti e stretti; ma gli ultimi due si spostano, dal
punto di vista visivo, leggermente in avanti (come se volessero, anarchicamente,
“staccarsi” dalla struttura alla quale
erano stati legati); nel sonetto In
meditazione (p. 35) le prime due strofe sono disunite e le due terzine
finali ricomposte in un’unica forma; a p. 50 si crea, invece, una sorta di
teatro dialogico fondato su due voci che tra di loro si rincorrono; Ne Il bambino (p. 67) ogni verso è inciso
con nitore e con fermezza, ed è seguito, alla fine, da un trattino che ne
sottolinea la sognante dimensione di danza ferma; nel bellissimo secondo
sonetto del dittico Impasse (pp.
69-70) si respira un’aria di fiabesca sospensione e amplificazione dei sensi,
non immemore, forse, di certi echi di matrice mallarmeana e dannunziana (con
particolare riferimento ad Alcyone); nella
poesia Al lettore (p. 73) ogni parola
finale è sdrucciola: e ciò crea una sensazione di liquido ondeggiamento, di
cullante ipnosi. Dunque, ciascuno dei sonetti di questo libro è un universo
singolo inserito in una dilatata galassia, a sua volta immersa in altre
galassie che sempre si espandono, sospinte da una carica di estrema,
emozionante energia. Perché – al di là dell’inquieta, febbrile tendenza alla
mutazione formale – a rendere di particolare interesse la scrittura di Ricciardi
è la plastica intensità espressiva dei versi, sostenuti da una costante,
ardente stupefazione enigmatica e da un insolito respiro di maestosa ed epica
solennità: «Se il cielo da lì è il nostro bardo / Ricoprendo o guardando anime
chiuse / L’universo più alto è senza sguardo».
Jacopo
Ricciardi, Sonetti Reali.
Iride-Rubbettino,
2016, pp. 100, euro 10.