martedì 4 luglio 2017

Mario Fresa. Ritratti di poesia (35)


Sonetti anarchici e perfetti

di Mario Fresa



Jacopo Ricciardi, nato a Roma nel 1976, è un artista metamorfico e intelligentemente versatile, i cui interessi spaziano dalla pittura alla poesia, dall’attività traslatoria alla prosa d’arte. Ogni suo libro sembra costituire un organismo in sé compiuto e autonomo e, contemporaneamente, si mostra come il prezioso tassello di un mosaico variegato che sempre si distingue per la sua ricca, flessibile originalità espressiva.
La sua nuova raccolta, Sonetti Reali (Rubbettino-Iride, 2016) colpisce già dal titolo: l’autore vuole restituire alla scrittura poetica una tinta forte, verticale, aristocratica, in virtù della dimensione superiormente altra della sua stessa natura (ben diversa dalla comunicazione “narrativa”, didascalica, orizzontale, del linguaggio comune e quotidiano). I testi di Ricciardi ripropongono, con audace e brillante sagacia, la forma del sonetto; ma il ritorno a tale nobile e “classica” composizione (strutturata – come da tradizione – in quattordici versi endecasillabi divisi in due quartine e due terzine) non è intesa dall’autore come un ludico esercizio di stile, né come un’occasione per volere, idealisticamente, ricuperare la pura bellezza di una remota modalità stilistica: perché la geometrica e luminosa organizzazione formale del sonetto permette a Ricciardi, paradossalmente, di muoversi con una felice e ispirata libertà di toni, accenti, colori di assoluta, sorprendente vivacità. Si noti l’uso esemplare di parole inconsuete e rare, splendide già nel loro suono: anacardo, biche, scisto, arieli, faglia, tura, boòpide, dulcimera; gemme musicali che mostrano visioni e dimensioni segrete e inconosciute, quasi alchimisticamente “create” dalla lingua e dallo sguardo del poeta. E poi, ogni sonetto sembra davvero vivere di una sua propria vita, perché diverso l’uno dall’altro; e ogni componimento pare quasi nervosamente mutare nel suo aspetto, pur restando, nella sostanza, fedele a sé stesso: in Velocità (p. 21) i versi s’accorpano tutti, gli uni sugli altri, uniti e stretti; ma gli ultimi due si spostano, dal punto di vista visivo, leggermente in avanti (come se volessero, anarchicamente, “staccarsi”  dalla struttura alla quale erano stati legati); nel sonetto In meditazione (p. 35) le prime due strofe sono disunite e le due terzine finali ricomposte in un’unica forma; a p. 50 si crea, invece, una sorta di teatro dialogico fondato su due voci che tra di loro si rincorrono; Ne Il bambino (p. 67) ogni verso è inciso con nitore e con fermezza, ed è seguito, alla fine, da un trattino che ne sottolinea la sognante dimensione di danza ferma; nel bellissimo secondo sonetto del dittico Impasse (pp. 69-70) si respira un’aria di fiabesca sospensione e amplificazione dei sensi, non immemore, forse, di certi echi di matrice mallarmeana e dannunziana (con particolare riferimento ad Alcyone); nella poesia Al lettore (p. 73) ogni parola finale è sdrucciola: e ciò crea una sensazione di liquido ondeggiamento, di cullante ipnosi. Dunque, ciascuno dei sonetti di questo libro è un universo singolo inserito in una dilatata galassia, a sua volta immersa in altre galassie che sempre si espandono, sospinte da una carica di estrema, emozionante energia. Perché – al di là dell’inquieta, febbrile tendenza alla mutazione formale – a rendere di particolare interesse la scrittura di Ricciardi è la plastica intensità espressiva dei versi, sostenuti da una costante, ardente stupefazione enigmatica e da un insolito respiro di maestosa ed epica solennità: «Se il cielo da lì è il nostro bardo / Ricoprendo o guardando anime chiuse / L’universo più alto è senza sguardo».




















Jacopo Ricciardi, Sonetti Reali
Iride-Rubbettino, 2016, pp. 100, euro 10.